Culture

Mark Fain: sounds like Nashville

Intervista parigina a uno dei bassisti americani di punta, già al fianco di Ry Cooder, Bruce Hornsby, Rosanne Cash (& many, many more...)

Mark Fain
26 dicembre 2018
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Pubblichiamo un contributo apparso sull'edizione di dicembre di Plug n' Play (www.pnpmag.ch)

Se questa intervista fosse un film, parafrasando Wim Wenders, si chiamerebbe «Paris, France». Mark Fain – bassista, contrabbassista e produttore di punta della scena di Nashville e dintorni (molto estesi) – si trova nella Ville Lumière perché qui, sul palco dell’Olympia, lo ha voluto Ry Cooder. È la notte di fine ottobre che anticipa la tappa conclusiva del tour di «The prodigal son», il ritorno del maestro della slide guitar 6 anni dopo «Election Special». Con il figlio Joachim alla batteria, il trio degli Hamiltones alle voci, il sax creativo di Sam Gendel e il morbido pilastro che è il suono di Fain, la carovana europea di Cooder è transitata da Amsterdam, Dublino, Glasgow, Londra, fino al tempio francese dello spettacolo in Boulevard des Capucines.

La carriera di Mark Fain si può riassumere digitando il suo nome sul sito della Recording Academy. Ne uscirà che su 11 nomination ricevute dai dischi nei quali ha suonato, di Grammy il musicista ne ha vinti 7. La metà di Ricky Skaggs, star del bluegrass alla quale Mark ha lucidato le punte dall’interno della di lui band, i Kentucky Thunder. Trasferitosi a Nashville negli anni Ottanta, nativo di Rogersville (siamo sempre nel Tennessee), il 51enne bassista ha cominciato a suonare ogni settimana con lo zio a partire dall’età di 14 anni. «Ho iniziato con la chitarra», racconta seduto al tavolo di un ristorante dell’Île-de-France. «Poi, a 10-12 anni, uno Stereo 8 di «'The Beatles at the Hollywood Bowl’ mi cambiò la vita». Quelle tredici tracce, sunto dei due concerti tenuti dai Fab Four nello storico anfiteatro nell’agosto del 1964 e un anno dopo, pubblicate soltanto nel 1977, fulminarono il piccolo Mark: «Fu allora che decisi che il mio strumento sarebbe stato il basso. Mia madre mi comprò un Rickenbacker, perché il Fender che mi piaceva non era finanziabile. Nonostante la scelta forse inusuale legata a un basso, quel Rickenbacker era e rimane comunque un grande strumento, che ho ancora con me. Credo di ricordare che fu pagato in otto rate...». 

«T» come Tennessee, e come Ticino

Per tutto il tempo del concerto dell’Olympia, e come d’abitudine, Fain tratta lo strumento con lo stesso rispetto con il quale Jimmy Johnson («Uno dei miei preferiti in assoluto», ci dice) accompagna James Taylor, ovvero seguendo le regole che ogni strumentista deve rispettare quando gli viene richiesto di far parte del disegno sonoro di un songwriter: «Que- sta è una delle attenzioni, una delle specifiche del suonare questo strumento. Per natura tendo a non essere invasivo, a non suonare troppe note. Tengo a che l’ascoltatore percepisca in modo chiaro la canzone, non sento la necessità di suonare di più solo per stupire. Cerco piuttosto di trovare una mia via attraverso il brano con lo scopo di enfatizzarne la bellezza. Credo che si tratti comunque di un concetto applicabile a tutti i generi». Quanto al suono, «quello che cerco di fare è sempre chiedere «cosa vuoi sentire?». Suonando con tanti artisti differenti, mi sembra giusto. Nel caso di Ry Cooder, sapevo di cosa avrebbe avuto bisogno. Non ho suonato in «The prodigal son» (al basso ci ha pensato lo stesso Cooder, ndr), ma avendomi voluto fortemente, mi sono preparato su quel suono».

C’è anche il jazz nella vita di Fain. «Molti strumentisti hanno amato le band, Yellow Jackets, Spyro Gyra. Io ho sempre preferito Miles Davis». C’è del jazz anche nella «dotazione elet- tronica» di Fain, che è svizzera, anzi, ticinese. La fabbrica la ticinese Schertler, giunta fino a Nashville grazie al passaparola nato anni fa da Charlie Haden, il primo di molti illustri endorser (Chick Corea è uno di questi): «Nel gennaio del 2015, il mondo del jazz disse addio a Haden nella Town Hall di New York», ricorda Fain. «Pat Metheny suonò un estratto da «Beyond the Missouri Sky» e fu un momento perfetto. In verità, ogni nota suonata in quell’occasione fu perfetta. Fu la cosa più bella e spirituale nella quale io abbia mai suonato». Per l’amante dell’oggettistica (musicale), Fain suona «un Fender Precision del 1972, con pick-up Fender. Ho altri P-Basses degli anni Sessanta, ma nessuno suona bene come questo. Uso anche un Lsl Jazz Bass fabbricato in California, che ha un timbro anni Sessanta e grandi pick-up. Corde Labella Flats, molto old-style e thumby, e Thomastick flatwounds, più «domestiche» e dal buon sustain».

In concerto con Rosanne Cash, figlia dell’icona Johnny Cash – che insieme a Ry Cooder ha finalmente deciso di reinterpretare i classici del padre («Per anni ha respinto l’idea, ma ne è uscita una gran cosa. Suoneremo presto all’Opera House di San Francisco») – Fain rispolvera il suo affezionato double bass: «Viaggerò con il mio Juzek del 1929, è il contrabbasso che ho da quando avevo 18 anni. Lo pagai 450 dollari, che all’epoca per me erano un milione. È il mio strumento da sempre». Oltre che con la figlia Rosanne, Mark ha suonato virtualmente anche con il padre Johnny: è accaduto nell’album postumo «Out among the stars», prodotto dal figlio John Carter Cash, album nel quale viene riproposto materiale inedito del defunto «Man in black», suonato con strumentisti vivi e vegeti. «Ho registrato nella Cash Cabin, è stato un giorno molto particolare per me. Ho provato una certa emozione a suonare con la sua voce in cuffia. Non credo di avere mai sentito un simile timing nel cantare...».

The Nashville Sound

Nashville, oggi anche importante centro di studi sulla genetica, è uno dei templi americani della musica. «Un posto che garantisce qualità di vita», dice Fain, citando il collega produttore e musicista John Leventhal, «che mi dice sempre «Buon per te che stai da quelle parti, non ci sono più molte sessions a New York». E a Nashville, Fain ha «un acro di ter- ra, che mi basta come giardino», fa musica e coltiva la sua passione per la bicicletta. «Le mie session sono cominciate nella Carolina del Sud» racconta. «Nashville recluta gruppi di musicisti, solitamente forniti dagli studi, a volte in formazione già completa. Poi, col tempo, i session men che vanno e vengono da Nashville ti riconoscono e iniziano a chiamarti». E se sei un session man, a Nashville, a grandi linee, le cose vanno così: «Non ti danno nulla da ascoltare fino a che non arrivi lì. Nessuna partitura in anticipo, nessun demo. Se sei il direttore musicale, solo in quel caso avrai un audio di riferimento che ti servirà per scrivere le partiture per tutti, nel sistema di scrittura di Nashville, più eventuali notazioni specifiche richieste».

Il sistema di scrittura di Nashvil- le è il «Nashville Number System»: prendete il Real Book e cambiate le sigle con i numeri dall’uno – la tonica di riferimento del brano – al sette, soluzione applicabile in qualsiasi tonalità. «Si registra generalmente in gruppi di tre ore, dalle 10 alle 13, dalle 14 alle 17 e dalle 18 alle 21, con un break per ogni turno». E siccome «chi suona a Nashville è bravo», si arriva ad incidere «sino a 10 canzoni al giorno». Fain non è un semplice strumentista. Nashville ne apprezza pure le doti di produttore. Quindi è vera questa cosa che i bassisti sono anche ottimi producer, Mark? «È una buona domanda. Non saprei. Innanzitutto, per essere un buon produttore è necessa- rio saper gestire i musicisti, farli lavorare in modo armonico, creare gruppo. Poi c’è un discorso di strumento: con la chitarra, o con un mandolino in una bluegrass band (mima il movimento, ndr) puoi anche mimetizzarti (sorride). I bassisti, invece, hanno un’unica chance per suonare la nota esatta. O eventualmente quella sbagliata». Cosa che, con alcuni artisti, implica doppia fatica: «Prendi Bruce Hornsby. Ci sono concerti dai quali esco esausto, anche se è fantastico suonare con lui. Ma con Bruce non è mai lo stesso pezzo ogni volta. Ha i suoi segnali per rientrare dai solo, ma non sono mai gli stessi. È fondamentale per me guardarlo. Se lo perdo di vista, sono perduto...». Hornsby, noto in Europa più per il singolo «The way it is» che per la successiva miscela di bluegrass, traditional, classica, jazze-pop e chi ne ha più ne metta ( che ne fa pianista unico e innovatore), suona con Ricky Skaggs in un gustoso e pacifico «duello» pianoforte-banjo condotto a colpi di pietre miliari del bluegrass. E Fain è al double bass sia nel disco che porta i nomi di entrambi che nel live «Cluck Ol’Hen».

Tornando alla produzione, tra i punti di riferimento di Mark c’è il sopracitato John Leventhal, «il mio produttore preferito. Adoro quanto ha fatto per Rosanne Cash, Shawn Colvin, nei dischi che produce lui gli strumenti suonano splendidamente, senti tutto e ti accorgi che la mano è la sua». E il Grammy nella categoria «Americana» per «The river and the thread» della prima e l’album «A few small repairs» della seconda (Grammy alla miglior registrazione dell’anno 2007 per «Sunny came home», con il quale molti fonici sono soliti testare i propri impianti) di Leventhal qualcosa dicono.

Quella volta con...

Tra i momenti memorabili di Fain, fruitore ed esecutore di musica a 360 gradi (ma il giro è da farsi almeno una volta di più), c’è anche una collaborazione in ambiti hard-rock con Zakk Wylde, chitarrista di Ozzy Osbourne e leader della Black Label Society. «Abbiamo provato in questa piccola stanza piena di Marshall. A poco è servito il cotone nelle orecchie (ride). Ho bellissimi ricordi con Hornsby dal vivo, e anche del disco di Chris Hillman «Bidin’ my time», prodotto da Tom Petty prima del suo ultimo tour. Con Tom ci dicemmo che sarebbe stato bello fare qualcosa più in là nel tempo, ma se ne andò prima che questo potesse succedere. Era una gran persona. Pensa che aveva la stessa crew, lo stesso monitor guy da 40 anni, e tutti lo amavano. E il tizio incaricato di portare soltanto acqua e caffè, Tom lo trattava come fosse la persona più importante di tutte. La settimana in studio con Petty è stata per me una splendida lezione di vita».

A cose fatte, scorrendo la lista delle collaborazioni di Fain, ci si rende conto che dalla lunga chiacchierata oltralpe sono rimasti fuori (nulla contro, mera questione di tempo) Dixie Chicks, Alan Jackson, Travis Tritt, Allison Krauss, Dolly Parton e un’altra manciata di artisti di prim’ordine ai quali il bassista ha fornito i propri servigi. Ci vorrebbe altro spazio per raccontare, per esempio, di quando Jackson Browne fu placcato da un buttafuori all’esterno di un bar per non avere con sé il pass «Access all areas» del proprio concerto. Ma per gli aneddoti «da musicista» occorrerebbe una rivista intera. Quando, 24 ore dopo il nostro incontro, si chiude il sipario dell’Olympia, la musica si sposta dietro le quinte. Mentre Co- oder, più forte di un’improvvisa raucedine, saluta con rapidi cenni di mano (ma senza bottleneck) alla fine di un concerto da ricordare, Fain dispensa sorrisi e con la mano destra (nella sinistra c’è del buon vino francese) saluta e congeda star dell’elettronica anni Ottanta, fonici, crew e altra umanità varia. «Suonare in questo teatro era uno dei miei sogni», dice. «Il suono è fantastico, lì sopra. Spero di poterci tornare presto. Lo sai, vero, che su quel palco ci hanno suonato i Beatles?».

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