laR+ L’intervista

Antonia Nessi e una casa d’artista che si apre al mondo

Da Neuchâtel, per diversi anni suo punto di riferimento professionale e di vita, alla terra natìa: a colloquio con la responsabile del Museo Vincenzo Vela

Antonia Nessi
(S. Carsana)
1 febbraio 2024
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La canzone francese è un modo per rompere il ghiaccio. Noi citiamo Francis Cabrel, lei consiglia il più giovane Bertrand Belin; rilanciamo con Zaz, lei suggerisce il più ‘anziano’ Brassens. «Ho lasciato il Ticino venticinque anni fa e fino a oggi tornavo solo per ritrovare la mia famiglia». Venticinque anni dopo, è tutto «un riscoprire i paesaggi della giovinezza, e una luce che in altri luoghi è diversa». Calata fino a ieri in un contesto prevalentemente francofono, al netto dell’anno trascorso in Italia per la tesi, era abituata a «scrivere, ragionare, a vivere in un’altra lingua».

Nell’attenderla, siamo transitati nelle sale dove il bianco delle statue tende allo zucchero filato, dove la giovane inginocchiata guarda fuori dalla finestra e il Napoleone stanco è immerso nei suoi pensieri. Ai frequentatori di musei è noto da tempo: dopo trentuno anni di intensa attività, Gianna A. Mina ha lasciato le chiavi del Museo Vincenzo Vela di Ligornetto ad Antonia Nessi. Annunciata dall’Ufficio federale della cultura (il museo è di proprietà della Confederazione, come da lascito di Spartaco Vela dando seguito al desiderio del padre), la nuova direttrice si è insediata lo scorso novembre dopo avere lasciato Neuchâtel, per diversi anni suo punto di riferimento professionale e di vita.

Nata a Mendrisio nel 1977, Antonia Nessi ha ottenuto il dottorato in Storia dell’Arte all’Università di Neuchâtel. Ha poi seguito una formazione in museologia e nel campo della mediazione culturale. Dopo aver lavorato per vari musei esteri e svizzeri, tra cui il Musée d’art du Valais, nel 2012 è stata nominata condirettrice e responsabile del polo arti visive del Musée d’art et d’histoire di Neuchâtel. È autrice di diverse pubblicazioni scientifiche e ha curato varie mostre. «In questi anni – ci dice – ho provato la nostalgia tipica delle persone che partono, ma solo una ragione importante, insieme a quella degli affetti, avrebbe potuto convincermi a tornare in Ticino, la ragione legata al Museo Vincenzo Vela, un luogo così particolare, in cui arte, storia, cultura e natura si intrecciano».

Antonia Nessi: tre mesi dopo, quali sensazioni porta con sé il ritorno?

Le sensazioni che vengono dalla scoperta quotidiana e dal tempo che trascorre velocissimo. Sto vivendo un adattamento, anche culturale. Qui c’è maggiore facilità di contatto rispetto ai contesti urbani. C’è una flessibilità nelle persone che mi piace molto. In realtà la gentilezza non è quella di dare del tu bensì quella di sapersi adattare agli interlocutori, ma è una forma più spontanea. In senso negativo, sono colpita dal grande traffico, al quale non ero abituata, da questo rapporto conflittuale con la mobilità, che porta le automobili a essere indispensabili. In compenso, arrivando al Museo, ho trovato un piccolo team molto appassionato, composto da persone generose il cui entusiasmo va al di là delle loro mansioni.

Gli appuntamenti musicali del Museo Vincenzo Vela sono una costante da tempo. Ma forse, più che di musica, dovremmo parlare di poesia: quanto è contata nel suo approcciarsi all’arte?

Ho traslocato molte volte in tanti posti diversi, ma i libri che mi accompagnano in ogni trasloco sono in primis quelli di poesia. Vengo da un contesto nel quale è stato naturale incontrare poeti, artisti; mio padre Alberto ha una sensibilità molto forte nei confronti dell’arte in generale e non solo verso la letteratura. L’ho accompagnato in diversi viaggi insieme ai suoi amici artisti, viaggi importanti. Ricordo in particolare quelli con Massimo Cavalli, in Italia, Francia e America. Mio padre mi ha trasmesso soprattutto l’interesse per l’arte del Novecento, quella di grandi maestri come Morandi, Giacometti, Pollock, suggestioni che nel tempo sono diventate un dialogo, esteso anche all’arte contemporanea. Si potrebbe dire che lui e io viviamo lo stesso humus culturale, seppur con sensibilità diverse.

Come mai è partita alla volta di Neuchâtel?

Il mio bisogno di lasciare il Ticino è stato anche quello di crearmi un percorso personale. La mia prima idea non è stata quella di studiare Storia dell’Arte ma Etnologia, il che mi ha permesso di non limitarmi a un aspetto puramente estetico-storiografico dell’arte. Neuchâtel è una sede importante nell’ambito degli studi etnologici, che mi hanno insegnato a leggere un’immagine con uno sguardo interdisciplinare. L’opera d’arte, d’altra parte, ci porta sempre a interrogarci sul mondo, non è mai gratuita, è la fabbricazione di una storia, di un contesto sociale.

Il suo incarico arriva dopo la lunga gestione di Gianna A. Mina che qualche tempo fa, proprio su queste pagine, riassumeva i trentun anni dedicati a questa casa d’artista: dal restauro delle collezioni alla ristrutturazione, dalle mostre alla ‘ripulitura’ del nome di Vincenzo Vela dai pregiudizi della critica. Quanta responsabilità sente e, soprattutto, quanto ancora questo museo ha da svelare su Vela, sui Vela?

Penso si possa approfondire all’infinito. Al di là di quel che si può credere, questa non è una casa d’artista cristallizzata nel tempo. Vincenzo Vela è stato un personaggio straordinario tanto umanamente, per gli ideali politici difesi e combattuti, che artisticamente: la parola che lo contraddistingue è ‘generosità’, dunque si può continuare nel solco di un’eredità che è sì quella di Gianna A. Mina, ma anche di Vela stesso, che offre possibilità di dialogo infinite, a partire dalle molte nuove ricerche effettuate soprattutto in occasione del bicentenario della nascita. Ricerche su di un’opera che continua a rivelarci potenziali approfondimenti e nuovi dialoghi con il nostro mondo.

La sfida principale, che è anche la sfida di tutti i musei, è quella di non essere enciclopedici, ma di insegnare qualcosa, di creare ponti con la realtà. Viviamo un momento complesso, nel quale ai musei si domanda tanto: da una parte, di rispettare il loro Dna, e cioè di restare depositari di un determinato patrimonio, un lavoro importantissimo. Tuttavia, bombardati come siamo di immagini, di mondi social e realtà in mutazione che ci sfuggono di mano, il museo deve diventare sede di dibattito, un luogo in cui si creano domande, pena l’immobilismo.

Quali sono le sue intenzioni? Quale impronta sente di poter dare al museo?

Tengo molto, per quel che concerne le mostre, alle opere in collezione, e in particolare al patrimonio infinito di Vincenzo, ma anche a quello di Spartaco e di Lorenzo Vela, e di tutti coloro che hanno vissuto in questo luogo straordinario. Siamo depositari di un lascito, ma c’è un lavoro sempre profondo da fare sulle collezioni. Ultimamente abbiamo accolto al Museo una dottoranda che lavora sulla problematica del calco dal vero e ha individuato nell’opera di Vincenzo Vela un potenziale enorme di ricerca. Giorni fa un’artista di origine indiana con la quale potremmo presto collaborare, una volta arrivata nell’emiciclo, si è stupita di come questi gessi siano tutti bianchi, mentre lei, quando pensa a Spartaco, pensa a un eroe nero.

Ecco, dobbiamo renderci conto che il museo è, come recita l’ultima definizione dell’Icom (Consiglio internazionale dei musei, ndr) un luogo di inclusività: quella cui tende il lavoro della collega Sara Matasci per esempio, responsabile della mediazione culturale, che quasi settimanalmente lavora con gruppi di malati di Alzheimer per i quali il rapporto con le sculture, così vicine al vero, può risvegliare ricordi ed emozioni che si credevano perduti; penso alle iniziative rivolte ai migranti o ai richiedenti asilo, penso a come avvicinare al museo la generazione dei ventenni, chiedendoci il perché del loro allontanarsi da luoghi come questo. Ecco perché il museo non può rimanere fermo, limitarsi a conservare, insegnare, quasi a fare la morale.

Digitalizzare i musei non è la soluzione…

L’esperienza dell’incontro diretto con l’opera d’arte resta unica. La messa in rete delle collezioni può offrire un’esperienza assai realistica, ma il nostro compito è accompagnare l’incontro con l’opera d’arte: un momento irripetibile che non può, credo, essere rimpiazzato da nient’altro, e che comunque necessita di uno specifico accompagnamento. Il nostro lavoro è quindi quello di sfatare l’immagine di un museo sacralizzato e lontano. Anche logisticamente, perché il Museo Vincenzo Vela non si trova esattamente nel centro di una città.

Cosa la entusiasma e cosa la spaventa di questa nuova esperienza?

Parto da ciò che mi preoccupa ed è, come appena detto, la posizione geografica di questo museo, chiaramente isolata. A entusiasmarmi è invece il suo potenziale, la possibilità di continuare a sorprendere, di garantire ogni volta nuovi intrecci con il reale, con le nostre storie: un potenziale che credo si possa percepire semplicemente arrivando sul posto.

Mi entusiasma anche il suo essere ancorato al territorio, circondato da colline bellissime, ma proprio come Vincenzo Vela, che era svizzero e italiano e andò a combattere oltreconfine per i suoi ideali, questo museo è un luogo tra due patrie e interpreta pienamente il concetto di frontiera. La sua appartenenza alla Confederazione, inoltre, ci stimola a mantenere il dialogo con la realtà nazionale e ad attraversare regolarmente le frontiere tra un cantone e l’altro. Coltivare il dialogo con i colleghi d’oltralpe è un aspetto molto positivo e arricchente. Questo luogo, che si apre anche al rapporto con l’Italia, è bello perché poroso, generoso, perché non si chiude su sé stesso nonostante l’idea della casa d’artista richiami sempre una certa sacralità.


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A Ligornetto

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