masi lugano

I colori mai visti di Werner Bischof

Il Museo d’arte della Svizzera italiana presenta in prima mondiale alcuni scatti a colori del grande fotografo svizzero. Oggi l’inaugurazione.

Modella con rosa, Zurigo, 1939
(@ Werner Bischof Estate / Magnom Photos)
11 febbraio 2023
|

È cominciato tutto da alcune vecchie scatole contenenti centinaia di negativi su lastre di vetro di pochi centimetri. Quei negativi sono del fotografo Werner Bischof (1916-1954), ritrovati dal figlio Marco. Suo padre è considerato non solo uno fra i più grandi fotografi svizzeri, ma uno fra i maestri della fotografia del XX secolo a livello mondiale. Soprattutto, è celebre per i suoi reportage in bianco e nero realizzati durante i suoi numerosi viaggi in tutto il mondo, dall’Europa del secondo dopoguerra all’Oriente più spirituale, passando per le campagne negli Stati Uniti fino all’ultimo viaggio in Sud America.


Ti-Press
Un ritratto di Werner Bischof guardato dal figlio Marco

Mezzo espressivo

Il lavoro di riscoperta, ricerca e restauro del corpus di lastre ha portato all’allestimento della mostra ‘Werner Bischof. Unseen Colour’ che il Museo d’arte della Svizzera italiana (Masi) di Lugano e il Werner Bischof Estate (che Marco Bischof dirige da trent’anni) – in collaborazione con la Fotostiftung Schweiz di Winterthur – propone dal 12 febbraio al 2 luglio, nella sua sede del Lac. L’inaugurazione, come ricordato il 9 febbraio in conferenza stampa, si svolgerà sabato 11, alle 18.

Spicciate le informazioni di servizio torniamo alla mostra, una prima mondiale, che espone cento stampe digitali a colori tratte da quei negativi originali restaurati, dal 1939 agli anni Cinquanta. L’allestimento a cura di Ludovica Introini con la collaborazione di Marco Bischof (presente alla conferenza stampa) è notevole per due aspetti: perché mostra lavori inediti di Bischof e perché questi sono a colori (a quell’epoca una tecnica relegata al settore pubblicitario). I colori sono «usati da Bischof come mezzo espressivo», ha sottolineato la curatrice, aggiungendo come il fotografo zurighese sia stato uno dei primi a vederne il potenziale e integrarlo nel suo processo creativo.

«Un’esposizione – ha descritto il direttore del Masi, Tobia Bezzola – che mostra una volta di più come Bischof fosse un fotografo dalla natura duplice»: formatosi in accademia (dove assorbe uno spiccato formalismo) e autore di grandi reportage in bianco e nero, con etica "nitida", dove l’umanità e le sue faccende sono protagoniste; lavori che gli valsero la definizione di "fotografo umanista".


© MASI Lugano (foto Alfio Tommasini)
Una foto dell’allestimento

‘Con tutto il cuore’

"Solo il lavoro svolto in profondità, con impegno totale e con tutto il cuore, può avere veramente valore". La citazione è di Werner Bischof che era ben in chiaro su come andava fatto un reportage, rifuggendo il sensazionalismo e la morbosità che caratterizzavano già ai suoi tempi certa fotografia documentaristica.

Riprendiamo alcune informazioni dal Dizionario storico della Svizzera (Dss). Bischof nasce a Zurigo il 26 aprile del 1916. Il padre Adalbert è imprenditore e pensa per il figlio una carriera in linea coi suoi passi, ma Werner ha tutt’altre aspirazioni. Il giovane è caparbio e convince il padre a iscriverlo alla Scuola di arti applicate di Zurigo, che frequenta dal 1932 al 1936. In quel contesto, segue i corsi di fotografia di Hans Finsler, pioniere della Nuova Oggettività. Percorso che si rivelerà rilevante per la riflessione circa la composizione fotografica.

Diplomatosi, Bischof apre uno studio di grafica: nel 1938 realizza manifesti e lavora come fotografo di moda per la casa editrice Amstutz und Herdeg. Negli anni Quaranta (procedo a lunghi passi) alcune sue fotografia sono pubblicate dalla rivista culturale ‘Du’. Del biennio ’44-’45 sono i primi reportage che pubblica come membro dell’Allianz, l’associazione svizzera degli artisti moderni.

Ma la Seconda guerra mondiale e i suoi strascichi segnano in maniera irreversibile il percorso del fotografo: Bischof pubblica un numero speciale di ‘Du’ con scatti che documentano un’Europa distrutta e in macerie, viaggiando in Francia, Germania (da Berlino a Colonia e Dresda) e Paesi Bassi.


@ Werner Bischof Estate / Magnom Photos
"Trümmenfrauen" (donne delle macerie), Berlino, 1946

Nel 1949, dopo due anni dalla sua nascita, entra a far parte dell’agenzia fotografica Magnum, insieme ai fondatori Robert Capa, David Seymour, Henri Cartier-Bresson e George Rodger. Negli anni successivi, i suoi reportage furono pubblicati da importanti riviste, fra cui l’americana ‘Life’. Dopo il Giappone (dove si dedica a immagini più estetiche), Bischof compie un viaggio in Indocina come corrispondente di guerra per ‘Paris-Match’. Inviato da Magnum in America Latina, il fotografo raccoglie immagini stupende in Messico, Cile e Perù, dove il suo viaggio finisce bruscamente: muore all’età di 38 anni (è il 16 maggio 1954) in un indicente stradale.

Vividezza

Girovagando per le sale del Masi – la mostra è accompagnata da un prezioso catalogo edito da Scheidegger & Spiess ed Edizioni Casagrande –, salta subito agli occhi la freschezza delle fotografie esposte: le foto sono "nude", ovvero senza vetro affinché nessun elemento sfalsi l’osservazione; vivide a tal punto che alcuni elementi paiono emergere dalla superficie bidimensionale. Foto di una contemporaneità sorprendente. Basti guardare al ritratto del manifesto dell’esposizione ‘Modella con rosa’ (1939) che, a discapito dei circa ottant’anni dalla sua realizzazione, pare fatta ieri. Il viaggio che l’allestimento si propone di far intraprendere al visitatore non è cronologico, ma segue una tripartizione dettata dai tre apparecchi fotografici che Bischof utilizzò fra gli anni Trenta e Cinquanta, presentati nell’anticamera della mostra: una Devin Tri-Color (quella delle lastre di vetro), una Rolleiflex (dal formato quadrato utilizzata fra gli anni Quaranta e Cinquanta) e una Leica, la leggera compagna di viaggio nel ’53.


@ Werner Bischof Estate / Magnom Photos
Orchidee (studio), Zurigo, 1943

Sebbene non sia un commento critico, prendo in prestito l’appassionato refrain di Pia (che era Amanda Sandrelli) in ‘Non ci resta che piangere’: "Bella, bella, bella, bella…" (da batticuore).

Per informazioni: www.masilugano.ch.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE