Arte

Una mostra su come la fotografia cambiò la Svizzera

Dai primi dagherrotipi alle foto segnaletiche per individuare i diversi, il Museo d’arte della Svizzera italiana ripercorre l’Ottocento elvetico

Bulacher & Kling, Disastro ferroviario a Münchenstein, 1891
(H. R. Gabathuler, Protobibliotek)
1 aprile 2022
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La storia ha la preziosa capacità di mostrare il percorso che ci ha portati al presente, evidenziando le linee di forza di una realtà che ci risulterebbe opaca, senza conoscerne il passato. Vale ovviamente anche per la fotografia, oggi familiare per non dire banale strumento di rappresentazione – e falsificazione, aggiungono i più smaliziati – del reale. Ci sono quasi due secoli, tra le immagini che affollano la memoria del nostro smartphone e i dagherrotipi che troviamo, in un’atmosfera raccolta e in un’oscurità quasi religiosa, nella prima sala dell’esposizione ‘Dal vero. Fotografia svizzera del XIX secolo’ al Museo d’arte della Svizzera italiana da domenica 3 aprile al 7 luglio.

Parliamo di paesaggi e, quando la tecnica ha permesso tempi di esposizione di qualche minuto, qualche ritratto impressi su lastre di rame trattate con sostanze chimiche sensibili alla luce. Il dagherrotipo è di solito considerato "l’antenato della fotografia", ma per certi versi ne è il rovesciamento: si tratta infatti di immagini uniche e non riproducibili, mancando il passaggio dal negativo alla stampa. I dagherrotipi erano quindi "specchi dotati di memoria" o "quadri dipinti dalla luce" – due espressioni comuni nell’Ottocento che ha ricordato il co-curatore della mostra Martin Gasser – che nella loro singolarità, accentuata dal fatto di essere necessariamente realizzati nello stesso tempo e luogo di quello che raffigurano, lasciano alle più tradizionali litografie tutta la retorica dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. E infatti usciti dallo spazio raccolto dei dagherrotipi, la mostra presenta delle litografie realizzate proprio a partire da delle lastre di rame andate poi perdute.

Il passaggio dai dagherrotipi alle litografie testimonia l’accuratezza del lavoro fatto dai due curatori, il già citato Gasser e Sylvie Henguely. ‘Dal vero’ è una mostra coprodotta dalla Fotostiftung Schweiz di Winterthur e dal Photo Elysée di Losanna ed è innanzitutto il risultato di un lungo lavoro di ricerca sulla storia della fotografia svizzera nell’Ottocento. La Svizzera, ha ricordato il direttore del Masi Tobia Bezzola nella sua introduzione, non ha un archivio fotografico nazionale – la Fotostiftung è istituzione recente e relativamente piccola – ma tutto è frammentato in fondi privati, comunali e cantonali. Tre anni di lavoro sono stati necessari per ricostruire l’impatto che la fotografia ha avuto sulle arti e sulla società svizzera durante l’Ottocento. Il catalogo di questa esposizione, ha concluso Bezzola, sarà il testo di riferimento sulla storia della fotografia in Svizzera.

Questo lavoro scientifico si accompagna a un’esposizione molto ben curata con oltre 400 opere, alcune delle quali mai esposte prima, organizzate secondo un percorso tematico molto interessante. La prima parte, che anche nell’allestimento si stacca dalle successive, è dedicata come detto ai dagherrotipi e lì troviamo – o meglio: troveremo perché al momento i dagherrotipi originali sono ancora in viaggio verso la Svizzera e in mostra troviamo delle riproduzioni d’epoca, ma è questione di pochi giorni – quella che è la prima immagine fotografica del Cervino, scattata dal viaggiatore e scrittore britannico John Ruskin nel 1849 che nei suoi viaggi in Svizzera ha anche immortalato (una volta tanto il termine è appropriato) le mura dei castelli di Bellinzona; e ancora il ritratto di un giovane luganese del 1842, i lavori della prima fotografa svizzera, Franziska Mölliger, e quelle del banchiere e diplomatico ginevrino Jean-Gabriel Eynard.

La prima sezione riguarda l’innovazione della stampa: la fotografia si libera della lastra di rame per conquistare la più leggera carta. Assistiamo allo sviluppo della ritrattistica di famiglia – per ragioni economiche ma anche di praticità: un’immagine su carta è più semplice da appendere al muro di una lastra di rame – ma soprattutto la fotografia dà il via a un processo di autorappresentazione che la mostra indaga in maniera molto interessante. L’arrivo della fotografia coincide con la nascita della Svizzera moderna e dello Stato federale e la costruzione di un’identità nazionale sfrutta anche il nuovo medium. Parliamo di immagini turistiche, in particolare paesaggi alpini, parliamo di fotografie delle tante tradizioni che caratterizzano la Willensnation, la nazione fondata sulla volontà, e anche di foto segnaletiche acutamente accostate dai curatori a quelle dei costumi tipici regionali. La costruzione di un’identità collettiva si basa infatti anche sull’esclusione e la fotografia diventa un potente strumento per riconoscere le persone non gradite come nomadi e senza tetto.

Attraverso due brevi sezioni dedicate al rapporto tra fotografia e altre arti e alla professionalizzazione della figura del fotografo arriviamo alla parte finale dell’esposizione dedicata alla scienza e alla tecnica. La fotografia diventa infatti uno strumento scientifico per studiare la natura e l’anatomia umana, in particolare gli effetti di alcune malattie (come la serie di fotografie prima e dopo un’operazione di Emil Pricam), o per misurare lo sviluppo dei ghiacciai (ed è interessante confrontare queste foto scientifiche delle Alpi con quelle invece turistiche delle sale precedenti). Ma la fotografia, e torniamo al discorso sull’autorappresentazione, ha anche la funzione di documentare ed esaltare il progresso, come gli scatti realizzati durante la costruzione del tunnel ferroviario del San Gottardo.

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