Arte

Carol Solvay, il peso e la leggerezza dell’arte

In mostra alla Fondazione Ghisla di Locarno fino al 22 agosto le opere dell’artista autodidatta belga

Carole Solvay, Sans titre (Anémone rouge), 2017
3 aprile 2021
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Con tre tagli differenziati per ognuno dei tre piani, la Ghisla Art Collection presenta al pian terreno due maestri indiscussi della Land Art, Christo e Jeanne-Claude; in quello di mezzo opere rappresentative della collezione e, all’ultimo, una rassegna su Carol Solvay, artista autodidatta belga che ha trovato la sua principale fonte di ispirazione nella natura e nei suoi materiali che raccoglie pazientemente e poi rielabora: arbusti, canne, ossa di piccoli roditori, crini di cavallo. Ma soprattutto piume e penne di uccello che da anni costituiscono la sua materia espressiva prediletta. A differenza di altri artisti che le hanno utilizzate per conseguire effetti pittorici esaltandone la varietà dei colori, essa tende piuttosto a sorprendente un effetto atmosferico e ambientale.

Una grande nuvola bianca dentro una luce soffusa accoglie il visitatore che accede alla prima sala. L’impressione – confermata dal titolo – è quella di uno scroscio d'acqua ghiacciata che precipita da una nuvola soprastante, tanto da percepirne il ticchettio, la direzione, l'intensità. L’effetto è tanto sorprendente da fermare il passo di chi entra e si interroga stupito di quale materiale sarà mai fatta: certo, prima di ogni altra cosa, di un’infinita pazienza! Perché è un’opera che si direbbe fatta di niente, che si libra in un grande vuoto, con la vaporosità di una freschezza rigeneratrice. Solo dopo ci si muove e si cerca di capire: e ci si rende presto conto di come l'artista abbia saputo mimetizzare il materiale (singole penne di uccello deprivate delle loro barbe) per creare un’opera assolutamente nuova che genera nell'osservatore memorie, associazioni, dislocazioni spazio-temporali.

Come capita quando egli si gira e vede alle sue spalle, appesa al muro, quella grande madrepora dal bellissimo manto bruno e dai movimenti ondulatori che lo trasportano dalla pioggia del cielo alle profondità marine. Nessuno crederebbe, se non lo costatasse da vicino, tra sconcerto e sorpresa, che anche quell’opera è tutta fatta di piume legate ad una ad una. Viene alla mente la sua storia di donna diventata artista muovendo sull’onda delle tradizionali tecniche di cucitura e tessitura, ma che si è poi liberata dei loro vincoli – pur senza mai dimenticarle – per passare alla creazione di oggetti tridimensionali che si librano nello spazio grazie all’utilizzo di sottilissimi fili. Basterebbe questa prima sala a dar conto della notevole diversità espressiva e poetica che Carol Solvay sa raggiungere a partire da uno stesso elemento di fondo, e cioè le piume.

Che non rappresentano solo la cosa più leggera di questo mondo, ma anche la più delicata e fragile, la più inconsistente, in grado comunque di far volare alto nel cielo un corpo gravato di peso che, diversamente, resterebbe vincolato al suolo, impossibilitato ad alzarsi da terra: facendogli quindi cambiare prospettiva e punto di vista. Questo è il punto! Delle piume essa valorizza tutto al fine di creare opere librate nello spazio come fossero aria nell’aria, o che oscillano leggermente al passaggio del visitatore: un mondo senza peso, svincolato da quella legge di gravità che governa quello degli umani. Si percepisce che nelle sue creazioni perdura la memoria e lo stupore di un’infanzia lontana quando, con due oggetti trovati, si sapeva ricreare un mondo fantastico ma non gratuito, perché portava dentro di sé il senso misterioso del vivere a stretto contatto con una natura primigenia.

Quella stessa che si risente e ritrova un po’ ovunque passando per le sale dell’esposizione nelle forme palesemente organiche delle sue opere che richiamano elementi di natura come spugne, alveoli, lamelle, ali di farfalla e anemoni, strani nidi o arborescenze, e che la riecheggiano fin nei titoli delle varie serie: Onde, Madrepore, Scritture… Dove gli anemoni sembrano fiori e il vegetale è anche animale, o viceversa, dove gli arbusti sembrano criptiche scritture e il crine di cavallo genera forme della mente, dove la natura si manifesta insomma nella sua continua varietà. Pochi i colori, soprattutto forme vaporose che danno il senso di un respiro lento ma sintonizzato sul passo di chi si muove senza fretta, come quello cadenzato e regolare delle onde. Lo ricorda anche il bel titolo della sua recente monografia edita dalle Edizioni Mercator lo scorso anno “(E)movoir sans bruit”: in bilico cioè tra un muoversi lento ma anche un commuoversi ed emozionarsi senza rumore, contemplando, scoprendo, sentendo la vita che pulsa e preme in ogni angolo di questo mondo, ma anche il suo mistero.

“Le piume mi affascinano perché sono indissociabili dall’aria e dalla luce, sono vive e leggere, fragili ma anche resistenti” ha scritto Carole Solvay. Le sue opere, leggere e sospese nel silenzio dello spazio espositivo, vivono tra luci e penombre, tra stasi e movimento, frutto di una manualità umile e paziente ma anche di una grande dedizione e capacità di resilienza. Dicono dell’inconsistenza fuggevole della materia, ma anche della poesia dello sguardo e delle piccole cose, del respiro del mondo tra nuvole in viaggio, sottili trasparenze e improvvise rivelazioni.

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