Culture

Pau Donés, Jarabe de Palo: 'vivere è urgente'

6 luglio 2017
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«In effetti non è proprio un orario da musicista glam». Esordisce così, dall'altro capo del filo, Pau Donés, leader di Jarabe de Palo, puntuale all’appuntamento concessoci alle dieci di mattina, un momento della giornata nel quale la maggior parte delle rockstar si sono appena rimboccate le coperte. “È un orario da musicista lavoratore – specifica Pau – e io mi sento tale. Mi sveglio alle 6.30 e alle 10 di sera, se non ho un concerto, sono già a letto». In concerto sabato 29 luglio a Bellinzona per Castle On Air (biglietti su ticketcorner.ch, inizio ore 20.30), la band spagnola porta nella splendida cornice di Castelgrande un album celebrativo intitolato “50 Palos”. Titolo che è anche quello di un libro scritto dal suo leader tra l’alba e le prime ore di luce piena, perché «il mattino è il momento più creativo del giorno per me». Un libro che è in sé un capitolo a parte di un’opera più grande che Donés sta scrivendo (in musica, sui social, nelle interviste) sul suo rapporto con un cancro al colon diagnosticato nel 2015. Un male che sembrava sconfitto, e che invece è tornato.

 

Colpisce, di libro e cd, la foto di copertina, che mostra l’artista con un occhio pesto: «Dopo la prima operazione – racconta Pau – il medico mi ha obbligato a non fare sforzi per 3 mesi. Per me che vivo in simbiosi con la montagna, l’impossibilità di fare snowboard è stata dolorosa. Passati quei 3 mesi, il dottore mi ha detto che potevo ricominciare. Ho preso la tavola, era un giorno molto brutto, nevicava. Ho avuto un incidente, e mi sono ritrovato con un occhio gonfio. È stato un momento molto importante, ho sentito che ero tornato alla vita. Quella fotografia esprime il mio risveglio». Se il libro è una biografia nuda e cruda, altrettanto crudo è il cd, volutamente scarno ed essenziale nei suoni: «Volevamo che fosse una celebrazione speciale, un album e un tour speciali. Nel disco suoniamo le canzoni così com’erano venute al mondo, voce e strumento. Ci è piaciuto fare una cosa al di fuori del rock latino di Jarabe de Palo».

 

Volumi contenuti, dunque, che nulla hanno a che vedere con le vicende personali del leader, nemmeno quando l’inevitabile «melancolia del pianoforte sostituisce la chitarra, con la quale di solito compongo». Vicende che non sono mai state esperienza privata, per la scelta di Pau di condividere da subito la propria sofferenza sul web, integrandola con intelligenza e ironia. «Dal primo momento che ho capito il dolore che provoca la malattia, alla gente che ne soffre e a chi sta intorno a chi soffre, ho cercato di donare la mia esperienza di malato» racconta Donés. «Quando si sta così male, non dovrebbe esserci il tempo per pensare alla morte, semmai quello per pensare alla vita. Noi malati di cancro, come di altre patologie, possiamo vivere, e farlo bene. Torno ora dagli Stati Uniti, domani riprendo i concerti, ne farò un centinaio. Ho registrato un album, ho scritto un libro, e non sono Superman, sono un malato di cancro. La mia è una malattia pericolosa, anche mortale. Però, mentre arriva la morte, viviamo la vita. Che ne sai, la morte, magari, arriverà in un altro modo, in un altro momento…».

 

Gli chiediamo di quel “11.10.1966” stampato sulla t-shirt che indossa nel video di “Humo” (Fumo), un singolo che è un inno alla vita, in bilico tra il commiato – “E ora che il cielo mi chiama, sii forte, non ho paura” – e la battaglia – “Non me ne importa di ciò che mi aspetta e non tremo” –. «È la data in cui sono nato – racconta Pau – e da quel momento il presente è stato la cosa più importante. Io non lo sapevo, ma dopo la morte di mia madre (suicida quando lo spagnolo era sedicenne, perdita che occupa un capitolo fondamentale del libro, ndr) ho appreso che la vita è oggi». Non a caso, sul sito ufficiale di Jarabe de Palo, in rosso, a caratteri sufficientemente cubitali, c’è scritto “vivere è urgente”: «Il futuro non esiste, e il passato se n’è già andato. Per far sì che la nostra vita sia più piena, più interessante, più emozionante, dobbiamo vivere questo momento».

 

Per la forza emotiva di “Humo” si è scomodato anche il Re di Spagna, con una telefonata. Al suo autore diciamo che per quant’è bello, quel pezzo, si sarebbe dovuto scomodare l’Onu. Ma la politica è un tasto dolente: «In questo momento il mondo è un po’ disgraziato» dice Pau con la disillusione che nemmeno il pensiero della sofferenza gli dà. «C’è in giro molta gente brutta, molti ladrones, e mi dispiace». La sua idea del moderno politico è «molta faccia e poco senso, molto attore e poco gestore, perché la politica deve essere gestione, amministrazione». Con un paio d’eccezioni: «Io e il Re non siamo amici, ci conosciamo. Quello che mi ha fatto piacere è che non mi ha chiamato come Re, né come politico, ma come persona. Lo stesso ha fatto il ministro della Cultura. Sono state telefonate personali e per niente istituzionali. E comunque non è che rispondo a tutti quelli che mi chiamano…».

 

Sorride l'artista, dall’altra parte del telefono, anche quando ricorda una fidanzata bernese («ci amavamo in inglese»), o di quella volta che lo scambiarono per il fratello di Jovanotti («non ci sono andati troppo lontano, per come io e Lorenzo affrontiamo la vita e viviamo la nostra carriera»). Una naturale apertura al prossimo e una serenità incrollabile, quella di Donés, pure di fronte a percentuali di guarigione altalenanti: parafrasando la sua “Dicen” (Dicono), non molto tempo fa, scriveva “Dicono che sto morendo”. Alla fine della telefonata, liquidati i politici, il finale è riservato ai cantanti: «I musicisti possono ancora insegnare qualcosa, semplicemente essendo persone ‘comme il faut. Persone per bene». Accertatosi che la bellezza di Castelgrande corrisponda a verità, Pau torna alla sua giornata di musicista, e al suo – mai così caro – presente.

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