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(In)differenze: perché la salute femminile è di serie B

Un ‘utero ambulante’ anziché un individuo completo. Così la medicina fin dai suoi esordi ha considerato le donne. Conseguenze e retaggi

La ricerca sulla biologia femminile si è concentrata a lungo quasi esclusivamente sugli aspetti (e doveri) riproduttivi
(Ti-Press)
1 dicembre 2023
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Fin dalle origini della medicina, il possesso dell’utero ha fatto sì che le donne venissero considerate prevalentemente come corpi riproduttivi, atti a partorire e allevare figli, piuttosto che come individui completi con esigenze di salute complesse. Così gli interessi per la salute femminile sono stati relegati soprattutto agli aspetti specifici relativi alla riproduzione. A conferma di questa visione, alcuni dei primi schizzi di scheletri femminili erano intenzionalmente distorti, con i fianchi resi notevolmente più larghi e i crani significativamente più piccoli rispetto a quelli degli uomini. A spiegarlo è Marta Fadda, docente e ricercatrice in bioetica presso l’Università della Svizzera italiana (Usi): «La medicina ha sin dai propri esordi adottato un approccio androcentrico, modellando sulle caratteristiche biologiche maschili le linee guida diagnostiche, le terapie e la valutazione dei loro effetti collaterali. Un approccio che si è tradotto nel corso della storia, e in parte si traduce ancora oggi, in un forte bias di genere – ovvero in distorsioni dovute alla mancata considerazione delle differenze di genere – sia nella pratica sia nella ricerca clinica», illustra Fadda, che è tra le ospiti del convegno pubblico organizzato dall’Usi ‘Il peso psicologico e sociale degli stereotipi di genere’ – in programma domani, sabato 2 dicembre –, nel corso del quale proporrà un intervento dal titolo ‘La medicina delle (in)differenze’. L’abbiamo intervistata.

Che cosa ha comportato tale concezione delle donne come meri corpi riproduttivi?

Avendo escluso le donne dalla ricerca scientifica, una delle principali conseguenze è che i medici hanno colmato le lacune sulla loro conoscenza con narrazioni basate sul concetto di isteria. Questo termine, che deriva dal latino histerëcus (utero), è stato usato in culture diverse e tempi diversi per riferirsi a una condizione medica attribuita principalmente alle donne, caratterizzata da una vasta gamma di sintomi fisici e mentali, spesso descritti come segni di fragilità femminile. Il concetto ha contribuito a una visione distorta e riduttiva delle esperienze fisiche, emotive e psicologiche delle donne, enfatizzando un presunto legame tra i disturbi mentali e la loro sessualità o biologia.

Si può affermare che sia rimasta una certa propensione a ricondurre alla sfera psicologica i sintomi delle donne e a sottovalutarne il dolore?

Sì. La tendenza a diagnosticare più spesso le malattie mentali nelle donne si riscontra già durante gli studi di medicina. In una ricerca condotta a Losanna è emerso che nelle pazienti donne gli studenti tendevano maggiormente a sondare possibili cause psicosociali e ad attribuire i sintomi a fattori psicologici o soggettivi. Con i pazienti maschi, invece, le domande si concentravano piuttosto su aspetti fisiologici e legati alla sfera medica. Diversi altri studi confermano inoltre che quando una donna si rivolge a un medico per una problematica vi è un rischio maggiore che sia indirizzata a una valutazione psichiatrica rispetto a un uomo. Per quanto riguarda il dolore, una considerevole percentuale degli studenti di medicina e dei professionisti del settore medico sembra attribuirne l’origine nelle donne a fattori “psicogeni” o “emotivi”, presumibilmente a causa degli stereotipi che le ritraggono prone a drammatizzare o esagerare il dolore, e talvolta persino a inventarselo. Questa percezione distorta potrebbe influenzare negativamente l’elaborazione di un piano terapeutico adeguato, portando a proposte di trattamenti psicologici anziché a una corretta terapia.

Quanto e come è stato trascurato il settore delle patologie prettamente femminili?

La ricerca sulla salute delle donne ha sofferto a lungo di sottofinanziamento, e molte condizioni che colpiscono principalmente o esclusivamente le donne, o che le colpiscono in modo diverso, sono state fortemente trascurate. Questa carenza di attenzione ha generato una mancanza di conoscenza su come gestire e trattare condizioni come l’endometriosi – una malattia dolorosa che colpisce il tessuto uterino – e malattie autoimmuni quali l’artrite reumatoide. Ad esempio l’endometriosi può richiedere anni per essere diagnosticata correttamente, causando sofferenze prolungate e compromettendo la qualità di vita. Questi divari sono ancora più evidenti nelle comunità storicamente escluse dalla ricerca e oppresse a livello societario, tra cui le donne di colore e le donne con disabilità.

Come viene giustificata l’esclusione di donne dalla ricerca in campo biomedico anche in tempi più recenti?

Negli ultimi decenni le donne sono state escluse dalla partecipazione ai trial clinici principalmente a causa di timori legati alla gravidanza e al ciclo mestruale. Questa esclusione mirava a proteggere gli interessi delle donne in età fertile, dato il numero limitato di ovuli rispetto alla produzione continua di spermatozoi negli uomini. Tuttavia la sistematica esclusione delle donne è stata operata indipendentemente da età, orientamento sessuale, capacità e desideri riproduttivi, e questo è insensato. Dall’altra parte ci si è appellati all’intenzione di garantire che gli studi clinici fossero condotti in modo rigoroso e privi di influenze, in base alla convinzione che il ciclo mestruale e le rispettive variazioni dei livelli ormonali introducessero troppe variabili. Oltre a essere una politica che tratta tutte le donne come uteri ambulanti, va contro ogni logica il fatto che i ricercatori poi ignorino queste differenze visto che studiano solo gli uomini e applicano i risultati alle donne.

Perché è così importante tenere conto delle differenze di genere nell’ambito medico?

Per due motivi. Il primo è che l’esclusione sistematica femminile dagli studi clinici ha portato a una carenza di dati rispetto agli effetti di molti farmaci sulle donne, così come a frequentemente ignorare o mal diagnosticare nelle donne delle patologie che si presentano in modo diverso tra i generi. Un esempio è rappresentato dalle malattie cardiache per le quali le donne possono manifestare sintomi come nausea o stanchezza anziché il classico dolore al petto: la mancanza di questa consapevolezza comporta per il genere femminile il doppio delle probabilità di morire a causa di un infarto. Il secondo motivo è di natura etica. Il nostro sistema sanitario si basa su dei valori di imparzialità e uguaglianza e la promozione di tali principi è essenziale per garantire il diritto universalmente riconosciuto a cure di qualità. Disuguaglianze di genere nella gestione delle malattie possono compromettere per alcune fasce della popolazione questo diritto così come minare quello di vivere in una società equa e inclusiva.

L’impostazione clinica che ignora le diversità può avere conseguenze anche sui costi della salute?

Eccome. Il bias di genere in medicina ha dei costi, alcuni quantificabili, altri meno. Stando a una ricerca della Deloitte, i costi sanitari per le donne occupate negli Stati Uniti sono stimati in 15 miliardi di dollari in più rispetto agli uomini occupati. Secondo l’analisi, una lavoratrice media deve pagare ogni anno circa 266 dollari in più di spese “out-of-pocket” rispetto alla controparte maschile. Ma vi sono anche altri costi non direttamente misurabili che riguardano la perdita di fiducia nel sistema sanitario. Questi includono la riluttanza ad affidarvisi dopo esperienze discriminatorie, il sospetto verso gli operatori sanitari e la frustrazione di fronte a situazioni di disparità e iniquità. Le patologie possono di conseguenza aggravarsi e portare alla necessità di cure molto più costose, con una evidente incidenza sui premi di cassa malati.

A che punto siamo in Svizzera rispetto all’accettazione e alla promozione della medicina di genere?

Negli ultimi anni si è registrata una maggiore consapevolezza e apertura. Anche nel nostro Paese sono disponibili varie formazioni specifiche sulla medicina di genere per curanti. Tale approccio sta entrando pure nei curricula delle scuole di medicina, inclusa la nostra Università della Svizzera italiana. Anche il Consiglio federale è incaricato di promuovere la ricerca in medicina di genere, con particolare considerazione della donna, e ha adottato diverse misure, tra cui l’avvio di un programma di ricerca nazionale (Prn) in materia di medicina di genere; la considerazione del genere in quanto presupposto per l’ottenimento di fondi presso il Fondo nazionale svizzero (Fns); l’aumento considerevole delle ricerche concernenti i disturbi e le malattie riguardanti specificamente e soprattutto le donne. Inoltre il tema è sempre più spesso oggetto di convegni, pomeriggi di studio e articoli.

Quali altri passi si potrebbero intraprendere per migliorare la situazione?

Il problema degli stereotipi di genere presenta una componente sia strutturale-sistemica che individuale, richiedendo quindi diverse misure di intervento. Fondamentalmente, il primo passo cruciale è un sincero desiderio di cambiamento. Questo impegno autentico deve sottendere ogni sforzo e deve essere condiviso da individui, comunità e istituzioni. Il secondo passo consiste nell’incrementare la consapevolezza tra gli attori del mondo della clinica, della ricerca e della formazione. È necessario proporre più momenti formativi in cui tutti – medici, studenti, docenti e altri membri delle istituzioni – siano sensibilizzati riguardo al peso degli stereotipi di genere, alla loro natura e alle loro conseguenze. Questa consapevolezza deve estendersi oltre il campo medico, coinvolgendo anche il mondo del lavoro, dell’istruzione e delle relazioni sociali. In terzo luogo, servono delle politiche adeguate. A livello istituzionale, politiche mirate e soprattutto il monitoraggio successivo possono essere strumenti utili. Ad esempio, potrebbe essere una condizione per gli studi quella di indagare le differenze di genere, o di includere almeno la metà di partecipanti donne e di altri gruppi storicamente sottorappresentati. Queste richieste possono essere avanzate dalle università, dagli enti finanziatori e dalle riviste scientifiche.

IL CONVEGNO

‘Stereotipi: individuarli e metterli in discussione’

Oltre che in quello medico, il convegno ‘Il peso psicologico e sociale degli stereotipi di genere’ proporrà delle incursioni in diversi altri ambiti, dalla tecnologia, ai media, alla rete familiare, con interventi di varie esperte, laboratori e una tavola rotonda. L’evento si inserisce nel quadro della campagna mondiale di 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere e trae origine da un’iniziativa di ‘Usi in Ascolto’, uno spazio di sostegno individuale a titolo gratuito a disposizione dei membri della comunità universitaria (corpo studentesco, accademico, amministrativo) promosso dal Servizio pari opportunità dell’ateneo, anch’esso coorganizzatore della giornata in collaborazione con l’associazione Ciao Table, l’associazione Puntozero, la Fondazione Diritti Umani e Amnesty International.

«‘Usi in Ascolto’ è nato durante il periodo pandemico ed è attivo da dicembre 2020 – spiega la sua referente, la ricercatrice e docente in psicologia e neuroscienze sociali Rosalba Morese –. Non è un servizio di tipo clinico, ma un cuscinetto di primo aiuto che fornisce un supporto immediato a chi si trova confrontato con un momento di difficoltà». Lo spazio è gestito da professioniste con formazione in psicologia e psicoterapia e negli ultimi mesi si è sviluppato su più livelli: «Oltre all’ascolto, ci occupiamo di formazione – quest’anno è partito un corso di benessere al lavoro dedicato al corpo amministrativo –, e di sensibilizzazione sulla salute mentale», rileva Morese. Il convegno di domani rientra in questo terzo livello. «Il suo scopo è cercare di capire come gli stereotipi di genere di cui siamo tutti permeati hanno un impatto su chi li subisce e in generale sulla società – dice la docente e ricercatrice –. Cercheremo attraverso diversi approcci di vedere come si formano all’interno di una cultura e che conseguenze possono avere in relazione alle pari opportunità e alle discriminazioni, valutando anche quale danno comunitario comportano. Proveremo insomma a individuarli per metterli in discussione».

L’appuntamento è a partire dalle 9 presso l’Aula magna del Campus Ovest Lugano dell’Usi. Programma dettagliato consultabile all’indirizzo: www.usi.ch/it/feeds/26519.

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