Ticino

Unitas, l’Mps chiede una Commissione parlamentare d’inchiesta

La richiesta, primo firmatario Matteo Pronzini, dovrebbe essere depositata domattina e arriva dopo la discussione generale di oggi in Gran Consiglio

Non è finita qui
(Ti-Press/Gianinazzi)

Sul caso Unitas il gioco, politicamente parlando, potrebbe farsi duro. Il Movimento per il socialismo, primo firmatario il deputato Matteo Pronzini, si appresta a chiedere – l’istanza dovrebbe essere depositata domattina - la costituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta. Una Cpi sulla "gestione da parte della autorità cantonali della vertenza Unitas". Dopo aver preso atto della discussione generale in Gran Consiglio seguita alle risposte del governo "alle interpellanze sul caso Unitas", e alla luce di "quanto emerso pubblicamente e sui media in queste ultime settimane", l’Mps ritiene che "vi siano gli estremi per richiedere la costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta ai sensi dell’articolo 39 della Legge sul Gran Consiglio e sui rapporti con il Consiglio di Stato".

Le richieste dell’Mps

Il Movimento per il socialismo propone anche il mansionario. Sei i compiti. La Cpi "dovrà: 1) permettere di completare l’audit sentendo in particolare le persone informate sui fatti che fino a oggi non si è potuto sentire e acquisendo agli atti altri casi simili a quelli della dipendente che, purtroppo, si è tolta la vita nel 2001; 2) analizzare e valutare il ruolo del rappresentante dello Stato in seno al Comitato di Unitas, nonché dei diversi responsabili alla testa del Dipartimento sanità e socialità e del Consiglio di Stato dalla fine degli anni Novanta a oggi; 3) analizzare e valutare il comportamento del governo in relazione alla mancata applicazione dell’articolo 15 del Regolamento sull’organizzazione del Consiglio di Stato e dell’Amministrazione in relazione alla partecipazione di Manuele Bertoli (direttore del Dipartimento educazione cultura e sport, ndr) alla presentazione dei risultati parziali dell’audit; 4) analizzare e valutare la funzione di presidente della Fondazione Unitas da parte di Manuele Bertoli in relazione all’articolo 1b della Legge concernente le competenze organizzative del Consiglio di Stato e dei suoi dipartimenti; 5) analizzare e valutare il lavoro di controllo e applicazione delle diverse leggi federali e cantonali a tutela della salute e integrità dei dipendenti e utenti nel corso degli ultimi 25 anni; 6) proporre eventuali modifiche di legge, in particolare in materia di gestione delle strutture socio-sanitarie e dei criteri di qualità; eventuali atti parlamentari giacenti sul tema della gestione delle strutture socio-sanitarie e dei criteri di qualità dovranno venir assegnati alla Cpi ed evasi con la discussione del rapporto".

La proposta di istituire una Cpi è stata ventilata, durante la discussione generale, anche dal deputato democentrista Tiziano Galeazzi.

Alcuni soci di Unitas in tribuna: ‘Non ci aspettavamo molto...’

La discussione generale, si diceva. Ebbene. Il lungo dibattito in aula ha lasciato «senza molte parole» un gruppo di persone legate a Unitas che vi ha assistito dalle tribune del Gran Consiglio: «Non ci aspettavamo moltissimo da questa discussione ma non pensavamo che si sarebbe dovuti arrivare a tirar fuori dei documenti, e alla conseguente reazione di rabbia. E neanche che nel rispondere il direttore del Dss parlasse per metà del tempo delle cose che sono state fatte bene. Non era questo lo scopo». I soci di Unitas che non vogliono più uscire con i nomi – «passiamo più tempo in polizia a denunciare che altro» – specificano, avvicinati da ‘laRegione’ per una reazione, di ritenere che «la gravità di quanto successo dovrebbe comportare un ricambio immediato del comitato, ma da quanto ascoltato bisognerà ancora attendere. Una cosa positiva però c’è, ovvero che non si parli più di vittime presunte ma accertate, per loro la minimizzazione era insopportabile».

Noi (Verdi): ‘Il governo non è stato davvero super partes’

A mettere il focus su questo aspetto in apertura di discussione proprio uno degli autori dell’interpellanza bis, Marco Noi (Verdi): «A me colpisce molto che il Consiglio di Stato abbia sempre usato le parole "presunte vittime". Da questo punto di vista è necessario che prenda posizione chiara a sostegno delle vittime affinché possano andare avanti in questo iter faticoso per difendere il proprio diritto di farsi riconoscere. Dobbiamo rifiutare questa logica dell’essere soggiogato per la paura, ma rivendicare la possibilità di difendere la propria personalità, identità e diritti. Questo ha valore che va al di là di questa singola situazione che tocca comunque diverse persone». E aggiunge: «Il Cantone ha assunto un ruolo di ente super partes che deve essere equidistante ma vista dall’esterno è come se la parte lesa fosse stata dimenticata e trascurata mentre quella potenzialmente coinvolta e sotto inchiesta appare come una parte che collabora, che dialoga dietro le quinte alle spalle delle vittime per sistemare le cose». Inoltre per Noi il governo avrebbe dovuto chiarire fin dalla prima comunicazione che si chiedeva la destituzione comitato così le vittime non sarebbero state costrette a uscire allo scoperto e anche prese di mira.

Pronzini (Mps): ‘Inopportuna la partecipazione di Bertoli a quella riunione governativa’

«La particolarità del caso Unitas e che crea un’ombra sul Consiglio di Stato è che Bertoli è presidente della Fondazione ovvero della cassaforte di Unitas – attacca Pronzini (Mps) –. Che abbia potuto conoscere dall’interno del governo cosa si intendesse fare è come se la volpe sapesse dove si nascondono le trappole». Per Pronzini il fatto che il governo non abbia ritenuto necessario che Bertoli lasciasse la riunione dell’Esecutivo sul tema va contro i regolamenti: «È prevista l’astensione da qualsiasi affare in cui il consigliere di Stato ha un interesse diretto. Era direttore di Unitas, è presidente ‘della cassaforte’, ha sicuramente un interesse diretto e durante la sua gestione si sono verificati abusi. Non lo sapeva, ma è sua responsabilità. Inoltre la questione del suicidio deve essere un caso importante perché ha deciso di parlarne nella sua personale conferenza stampa».

Dadò (Centro) all’attacco

Segue l’esplosivo intervento di Fiorenzo Dadò (Centro/Ppd): «Ci sono stati 25 anni di abusi, 19 casi accertati, 17 di molestie. Oggi si tendeva a mettere un po’ sul banco dei deputati De Rosa ma quando capitavano le molestie non si occupava di queste cose. Bertoli invece che è stato vicepresidente e direttore, lui sì, ha detto più volte alla stampa che non era a conoscenza diretta di molestie ed esclude ci siano stati casi di mobbing durante il periodo in cui lui era direttore. Ha detto che sapeva solo di problemi sugli orari di lavoro. Andiamo a vedere...». A questo punto inizia a leggere uno scambio di email del 2001 tra Bertoli e la collaboratrice che si è suicidata relativo alle riunioni di chiarimento convocate (i documenti cui si riferiscono i soci di Unitas, ndr.). «La convoca per discutere solo sugli orari di lavoro? Nello scritto in cui la collaboratrice che si è tolta la vita annuncia l’uscita dal gruppo religioso scrive "non è per me possibile servire un gruppo di fede cristiana il cui presidente stringe tra le mani un pennello in cui gli unici colori sono il nero e il rosso del sangue di chi non gli garba", riferendosi all’alto dirigente autore di molestie.

Dadò cita poi il verbale degli incontri: «Si parla di un personaggio non obiettivo, che giudica e condanna subito, non accetta opinioni diverse dalle sue, permaloso, vendicativo, incapace di collaborare, piace designare capri espiatori, gioca sul senso di gratitudine dei soci e una volta ricevuto un favore gli appartengono, usa volentieri le minacce, crede di essere lui l’Unitas. Di fronte a cose del genere – dice Dadò – è chiaro che sorgono interrogativi sulle discussioni fatte sui giornali da Bertoli. Addirittura si cerca di dare la colpa a chi non ha parlato. Questa qui la si ritiene gente che non parlava? Gente che si è anche suicidata qualche giorno dopo. Penso che di fronte a situazioni del genere bisogna smetterla con questa narrazione odiosa, è evidente che le vittime non parlano e non parleranno più. Se le persone come in questo caso fossero state ascoltate veramente non ci sarebbe stata tutta questa sofferenza». E Dadò incalza: «Se si vuole sistemare questa faccenda e avviarsi verso la luce il minimo che si possa fare è chiedere l’immediata dimissione di tutte queste persone. Anche se chi momentaneamente va a dirigere l’associazione non è ipovedente, non penso ci sia nessuno che si scandalizzi. L’importante è che ci siano le competenze e siano persone integre».

E Bertoli risponde

All’attacco di Dadò arriva secchissima e immediata la risposta del direttore del Decs Manuele Bertoli: «Per amore dei fatti bisogna smettere di interpretare i fatti stessi secondo narrazioni che convengono: ho dato colpe? Ho dato responsabilità a qualcuno? Dico solo che se le cose non le sai, non c’è lo Spirito Santo che le infonde. Se non c’è stato mezzo di sapere niente, intervenire è impossibile». Certo, «prima si sarebbe dovuto fare altro, per carità». Ma Bertoli tiene il punto: «Se uno non conosce i fatti, non si riesce a fare niente: è semplice, lapalissiano, quasi elementare. Non ho dato colpe a nessuno, per favore non ditelo».

Ma non è finita qui. Perché la replica a Dadò continua: «Per lei sarà facile dire che tutto il comitato vada via, e che non ci sarebbe nessun problema se a entrare in questo comitato fossero persone vedenti». Ma non è così semplice, dal momento che «Unitas è un’associazione di auto aiuto fondata da una persona che voleva fare il prete, ma non gli è stato consentito perché cieco. Per questa ragione ha fatto nascere un’associazione dove ciechi e ipovedenti si emancipassero, autogestissero, creassero qualcosa per loro. Non si entra per gioia in Unitas, ma perché si ha un problema. Ed è difficile riconoscere di avere un problema, ma è anche il Dna di questa associazione».

E tiene ferma la barra anche riguardo alle accuse di aver saputo degli accadimenti avvenuti in Unitas: «Ero nel comitato, certo. Mi sono ‘impicciato’ per fare in modo che le persone coinvolte si trovassero, si parlassero, affrontassero la questione. Il mio ruolo era intervenire affinché le cose si chiarissero. Dopo il primo incontro ce ne fu un secondo, dopo il secondo è avvenuta la tragedia che tutti conosciamo. Per ragioni a me ancora sconosciute».

De Rosa (Dss): ‘Abbiamo agito tempestivamente’

«La comunicazione è sempre migliorabile», ma detto ciò il direttore del Dss Raffaele De Rosa difende l’operato del governo: «Già dalle risposte alle due precedenti interpellanze si intuisce il perché della nostra richiesta di un ricambio completo del comitato di Unitas (che avverrà alle assemblee straordinarie di marzo e ordinarie di maggio, ndr.), dopo un’indagine che, prima volta nella storia, è stata presa in mano dal Cantone con un audit appunto perché avevamo il dubbio che il comitato stesso fosse coinvolto». E ancora: «Questo ha permesso alle vittime di farsi avanti, e di rivolgersi all’avvocatessa Martinelli Peter. Nella nostra risposta – prosegue De Rosa – abbiamo precisato che si trattava di 17 casi di molestie sessuali, problemi organizzativi, competenze, confusione di ruoli. Abbiamo spiegato da subito».

Di più. Per De Rosa «la vicenda è stata affrontata in modo tempestivo, sia dal Consiglio di Stato sia dai servizi preposti». In merito all’ascolto delle vittime, rimarca che «non si capisce perché il Cantone, il Dss e i servizi cantonali avrebbero dovuto ostacolare l’annuncio delle vittime o delle persone che volevano discutere, aprirsi, confidarsi su questi temi». Ancora una volta, il direttore del Dss assicura «la completa disponibilità ad accogliere chiunque volesse manifestare la volontà di parlare con l’avvocatessa Martinelli Peter, garantendo l’anonimato». Tutto perfetto? No, «potevamo comunicare magari più rapidamente. Ma facciamo tesoro di questa brutta vicenda, continuando con il sostegno alle vittime, contro la cultura del silenzio, impegnandoci per rendere più consapevoli le persone, sensibilizzare, formare, proteggere maggiormente per fare in modo che anche le misure di sanzionamento e di repressione vengano implementate».

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