Il Tribunale penale federale condanna un 50enne luganese che come responsabile dei servizi compliance di due banche non comunicò all'Mros un conto in odor di candeggio
Nell’ottobre del 2018 la Corte del Tribunale penale federale, presieduta dall’allora giudice di primo grado Giuseppe Muschietti, lo aveva assolto. Due anni dopo la Corte penale del Tpf di Bellinzona, presieduta da un altro magistrato giudicante, Fiorenza Bergomi, lo ha condannato. Una multa di 10mila franchi per violazione dell’obbligo di comunicazione previsto dalla Lrd, la legge federale contro il riciclaggio di denaro di provenienza illecita. In altre parole, per non aver segnalato, in veste di funzionario di banca, un conto in odor di candeggio all’Mros, l’Ufficio di comunicazione in materia di riciclaggio, autorità che opera all’interno dell’Ufficio federale di polizia e alla quale compete analisi ed eventuale trasmissione alla magistratura inquirente delle comunicazioni che gli intermediari finanziari sono tenuti a fare qualora sospettino (un sospetto "fondato") l’origine illegale dei patrimoni. La sanzione, pronunciata stamane da Bergomi, è stata inflitta a un 50enne del Luganese che all’epoca dei fatti, avvenuti tra il settembre 2010 e l’aprile 2011 in Ticino, era dapprima responsabile del dipartimento compliance di un istituto di credito e successivamente capo del servizio analogo in un’altra banca, cui era approdato anche il conto.
Al processo bis, che ha ribaltato il verdetto del 2018, si è giunti dopo il rinvio dell’incarto al Tpf, per un nuovo giudizio, deciso dal Tribunale federale. Con sentenza del novembre 2019, Mon Repos aveva infatti accolto il ricorso del Dipartimento federale delle finanze contro il proscioglimento dell’uomo, al quale Berna aveva irrogato una multa di 15mila franchi sempre per violazione dell’obbligo di comunicazione stabilito dalla Lrd, per la precisione dal suo articolo 37. L’operatore finanziario aveva poi chiesto di essere giudicato dal Tribunale penale federale. Che nell’ottobre di due anni fa lo aveva scagionato. Oggi invece il Tpf lo ha riconosciuto colpevole. «L’imputato, uomo di banca, cognito in materia, capo in un istituto di credito del dipartimento compliance e poi nell’altro del servizio compliance, era a conoscenza in modo preciso delle criticità relative al conto già nel settembre 2010. Sapeva che l’avente diritto economico della relazione era indagato in Italia per truffa al Comune di Lecce per ipervalutazione di alcuni immobili pubblici, che il conto aveva un saldo di 1,137 milioni di franchi e che era stato alimentato con contanti, senza peraltro alcuna documentazione a supporto. Alla luce di ciò, di un procedimento penale pendente in Italia e di un saldo elevato, l’imputato avrebbe dovuto fare la segnalazione». Ma la comunicazione all’Mros «non è stata effettuata né in quel momento né in seguito, se non nel maggio 2011: una segnalazione riguardante però un mediatore esterno e inoltrata dopo l’intervento del Ministero pubblico della Confederazione e quando il conto era praticamente già svuotato». Certo, allorché funzionario e conto sono confluiti nell’altra banca «vi era una situazione apparentemente caotica nel settore compliance, che non può essere imputata all’uomo». Tuttavia data proprio la situazione caotica, l’imputato, ha aggiunto Bergomi, «avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione ai casi a rischio». Un occhio di riguardo per quel conto e le sue «criticità» che, secondo la presidente della Corte, non ci sarebbe stata neppure nella banca precedente: «Un’attenzione che si imponeva, ma che è venuta a mancare e non risulta che l’imputato fosse impedito per qualsivoglia ragione di adempiere i suoi obblighi in qualità di responsabile del servizio compliance». Ergo: il 50enne «non può essere scagionato dalle proprie responsabilità». Da qui la condanna a una multa di 10mila franchi. Nella commisurazione della pena sono stati considerati alcuni fattori, tra cui il tempo trascorso dai fatti (una decina di anni), l’assenza di precedenti a carico dell’uomo e il fatto di aver agito «con dolo eventuale» (e non con dolo diretto). Non è però detto che la vicenda si chiuda qui. Difeso dall’avvocato Pascal Delprete, l’uomo potrebbe impugnare il verdetto appena emesso davanti alla Corte d’appello del Tribunale penale federale.
La lotta contro il riciclaggio in Svizzera “non è efficace”, ha sottolineato circa un mese fa in un’intervista a ‘24 Heures’ Daniel Thelesklaf, ex responsabile dell’Mros (ha lasciato l’incarico nel giugno del 2019), intervista ripresa dall’Ats. “Riusciamo a bloccare solo una frazione del denaro che viene riciclato” nella Confederazione. E questo anche se le banche sono diventate più caute, segnalando rapidamente i casi sospetti. Un boom di segnalazioni che però “sta causando problemi all'Mros: alla fine del 2019, oltre 6’000 segnalazioni degli istituti finanziari non erano ancora state elaborate”, ha precisato Thelesklaf. “Ciò corrisponde a beni potenzialmente illegali per diversi miliardi di franchi”. Un ritardo dovuto anche al fatto che in Svizzera, in alcuni casi, si inviano ancora documenti e fascicoli per posta, invece che in formato elettronico, come succede in altri Paesi. Stando all’ex funzionario il problema principale risiede però nel diritto penale: i procuratori pubblici devono “dimostrare in ogni caso che il denaro sospetto proviene da un crimine”. Tuttavia, per farlo devono “chiedere aiuto al Paese interessato”: se non collabora, allora “il caso è chiuso”. Una soluzione potrebbe essere quella di ribaltare l’onere della prova: in questo caso starebbe alla persona sospettata di riciclaggio dimostrare che i suoi soldi depositati nella Confederazione sono stati ottenuti legalmente. Molti Paesi (come Germania e Regno Unito) utilizzano questo strumento con successo, ma in Svizzera, stando a Thelesklaf, manca la volontà politica.