Ticino

Tentata strage, richiesti sette anni e mezzo

Piano dettagliato per colpire la Commercio. Emergono riferimenti ai nazisti e alle stragi americane, ma anche un passato di traumi personali

(Ti-Press)
1 luglio 2020
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“La morte, la morte, la morte, la morte, e ancora la cazzo di morte”. Quella che a quanto pare cercava l’imputato per la tentata strage alla Scuola cantonale di commercio: dalle carte del processo spunta infatti una lunga serie di riferimenti omicidi e suicidi, a partire almeno dalla lettera a una ragazza del 2016. La morte dei compagni, dei professori, ma anche dell'attentatore: il piano ricostruito oggi in aula risulta premeditato fin nei dettagli, e sarebbe dovuto culminare in una sorta di suicidio rituale. E che contrasta enormemente con la figura timida e desolata comparsa davanti al giudice.

Il ragazzo arrestato nel maggio del 2018 – quando aveva 19 anni e mancavano 5 giorni alla data fatidica, giorno d’esame alla Commercio – voleva che una volta compiuto il suo atto avesse un’ampia eco pubblica: per questo aveva preparato memoriali, indicazioni per gli inquirenti, un testamento, una sorta di comunicato stampa e perfino dei videomessaggi. Uno di questi, proiettato in aula, trasmette una teatralità affettata e surreale: capelli rasati, felpa, un tappo di birra da ruotare tra le dita, l’imputato guarda fisso in camera e descrive il suo piano. Quando entrerà a scuola troverà una “vittima zero” alla quale sfilare il tesserino per l'ingresso nei vari locali. Poi l’avvicinamento ai compagni ignari: “Darò loro del tu, semmai sono loro a dovermi dare del lei. Chiederò: ‘Che valore dai alla vita?’. Poi tirerò fuori la pistola, la punterò in aria e ripeterò la domanda: ‘Che cazzo di valore dai alla vita?’ E loro mi diranno ‘Ehi, ehi, tu vai bene a scuola, stai bene, è tutto a posto’. E invece no: non c’è niente che è a posto". Dall'aula 101, in particolare, "nessuno dovrà uscire vivo". Il resto è la descrizione della salita armi in pugno lungo tutti e cinque i piani della scuola, per abbattere a fucilate chi capita: la professoressa ‘coi suoi pasticcini di merda, i suoi biscotti e il caffè’, gli alunni riuniti nelle aule. Infine, prima di essere fermato dalla polizia, l’epilogo: indossare la bandiera della Gioventù hitleriana, piantarsi un coltello nello stomaco e spararsi in bocca. "Un segnale che duri per sempre".

La passione per le armi

“Volevo andare a scuola armato e uccidere un numero casuale di persone” ha ammesso il ragazzo davanti al giudice Mauro Ermani e alla corte delle Assise criminali di Bellinzona, riunita in via straordinaria al Palazzo dei congressi di Lugano. Per questo aveva accumulato un arsenale, con armi ricevute dalla famiglia ma anche acquistate presso armerie svizzere e su internet. La lista allegata all’atto di accusa – le ipotesi di reato includono gli atti preparatori punibili di assassinio od omicidio plurimo e la ripetuta infrazione della legge federale sulle armi – è lunga: oltre 20 armi da fuoco tra fucili a pompa e a canne, pistole nuove e d’epoca, caricatori per lo sparo a ripetizione, puntatori laser; oltre 3mila cartucce; una quindicina tra pugnali e baionette; una tenuta tattica e una serie di accessori.

Che l’imputato fosse appassionato di armi lo ammette lui stesso, riferendo di come fosse stato un amico ad avvicinarlo a quel mondo a metà tra il collezionismo e lo sport da poligono. Lì, a sentir lui, trovava “un’adrenalina e un senso di potere”, che sentiva il bisogno di affermare “perché mi sentivo impotente”. Perché sì, c’era una lucida pianificazione, c’erano il rimando alla simbologia nazista e la fascinazione per gli autori di stragi nelle scuole americane: per onorarli si era perfino inciso su avambracci, bicipiti, petto la sigla ‘Nbk’, i ‘Natural Born Killers’ di un film di Oliver Stone e il nome del piano per il massacro di Columbine del 1999. Ma c’era anche un senso d’impotenza che ha spinto il giudice a esplorare con attenzione i traumi vissuti dal ragazzo.

Impotenza e traumi

È a quel punto che è emerso il profondo senso di debolezza e discriminazione che da anni tormenterebbe l’imputato. Alcuni episodi lo avrebbero traumatizzato. Anzitutto la perdita del posto da apprendista in ferrovia nel 2014, per aver cercato di intascarsi i soldi di un abbonamento, una bravata all’origine di un persistente senso di colpa: “Per me era l’interruzione di un sogno, tutto il mondo si è rabbuiato” (nel video, prima del suicidio si anticipa l'atto distrapparsi un braccialetto delle Ffs segno "del mio primo errore"). Poi le delusioni sentimentali: un amore non corrisposto, un breve flirt con una ragazza già fidanzata, l’impressione generale che tutte si approfittino della disponibilità di quel ragazzo così gentile e diligente. Da lì una brama di vendetta che sotto alle buone maniere si fa sempre più persistente, ed emerge già in una lettera del 2016: “Non ho intenzione di andarmene senza fare del male anche ad altre persone”. Consapevole che nessuno si aspetta certi gesti da uno come lui, ma d’altronde “il pazzo sa nascondere la sua pazzia dietro una maschera di normalità”.

La situazione precipita 

La situazione che sembra precipitare all’inizio delle vacanze di Pasqua del 2018. Siamo a cavallo tra marzo e aprile, e altri due episodi lo feriscono: assiste all’aggressione verbale di un’amica da parte di compagni, non riesce a intervenire e questo infiamma il suo senso di impotenza; poi un’altra amica gli manda un selfie mentre è a letto con un altro ragazzo: “mi ha fatto sentire – mi scusi se cado nella volgarità – veramente una merda”. Chiama perfino il Telefono Amico, ma lo mettono in attesa e lui butta giù.

Fortunatamente  – per così dire – da lì il giovane inizia una specie di tacito congedo dagli amici e le amiche di sempre. Li incontra, con chi avrà gli esami cerca di sincerarsi che non si trovino sulla linea del fuoco. Un paio di amiche si insospettiscono: temono che voglia uccidersi, avvertono gli insegnanti che a loro volta si rivolgono alla Polizia. Anche gli agenti, da quanto è emerso in aula, al momento del fermo vogliono solo far luce sui suoi intenti e sulle armi: non sospettano un arsenale e la pianificazione di una strage così dettagliata. La strage è sventata. All’imputato che ascolta con imbarazzo le sue stesse parole d’un tempo, e risponde qua e là con un trafelato “prendo atto”, il giudice Ermani fa notare: “Fintanto che non si confronterà con queste cose, non può solo prenderne atto”. 

Prove tecniche di risalita

Secondo l'imputato, la prospettiva si ribalta una volta recluso alla Clinica psichiatrica cantonale di Mendrisio. Qui, tra ansiolitici e neurolettici, continua la pratica della scrittura. Ma è tutto diverso: “Mi fa sorridere pensare a come la mia mente si stia riavviando a pieno regime dopo lo sbandamento degli ultimi mesi". È un percorso di autoaiuto che cerca clemenza anzitutto per se stesso, e passa anche dalla fede ritrovata: “Ora dispongo di un’arma molto più potente di Ar-15 e Ak-47: il perdono. Ma non verso gli altri, quello è facile”. Ancora: “Il mio problema più grande è che non sono in grado di perdonare me stesso”; “Il 15 maggio era una sorta di punizione a me stesso per dimostrare al mondo che non ero una brava persona. Avevo bisogno di gente che mi odiasse come mi odiavo io”. 

Critiche al Ministero pubblico

Ermani poi non risparmia le critiche al Ministero pubblico: "Non si è mai visto che una persona accusata di reati così gravi venga trasferita in vista di un collocamento in un foyer, prima ancora che il perito incaricato si esprimesse sulla diagnosi e sulla presa a carico. E lo dico non perché il collocamento si sia poi necessariamente rivelato sbagliato, ma perché così non si fa". Infatti, prosegue il presidente della Corte, "le misure sono decise dalla corte e il luogo di applicazione è deciso dal giudice dei provvedimenti coercitivi e non si possono prevaricare queste competenze". La scelta di collocazione nel foyer prima della perizia avrebbe creato rischi alla pubblica sicurezza: "Questi collocamenti non vanno fatti così in fretta".

Una ricaduta

Ma veniamo appunto alla perizia, che indica un "disturbo depressivo ricorrente" e un "disturbo narcististico" che configurerebbe una "scemata imputabilità". Da allora la vita del ragazzo segue la routine del foyer in Svizzera romanda: sveglia, psicofarmaci, lavoro all'atelier di giardinaggio, un corso online di contabilità, modellismo, letture. 

Il 24 di luglio dello scorso anno quella che l'imputato chiama una "decompensazione": un ricovero (volontario) di quasi un mese all'ospedale psichiatrico locale. Le cause: "Ancora una volta c'era di mezzo una ragazza" conosciuta nel foyer, "ma questa volta ho reagito chiedendo subito aiuto alle persone giuste". Tornano a galla le vecchie emozioni, le idee suicide, il bisogno patologico di tagliarsi le braccia con un rasoio: "Ho avuto paura di me stesso". Un episodio che ha reso necessario il rinvio del processo e che, a detta di Ermani, "ha determinato la direzione del procedimento" spingendo a chiedersi "a che punto siamo" con un imputato che "alla prima difficoltà guarda caso simile" alle precedenti "arriva fino ad avere degli intenti suicidi".

Nuova perizia

Donde la richiesta di un aggiornamento della perizia psichiatrica, anche per capire se la presa a carico è adeguata. Proprio la nuova perizia sottolinea la necessità di una presa a carico stazionaria di tipo psichiatrico, da affiancarsi a quanto già fatto a livello socioeducativo. Altrimenti, conferma Ermani, "sono sforzi vani". Eppure il 21enne ammette che fa fatica ad accettare i trattamenti psichiatrici: "Fanno male al mio orgoglio". Il giudice appare preoccupato da questa "ambivalenza" e non ha dubbi: se non ci si "confronta coi fatti", allora "si marcia sul posto". Altrimenti il rischio è che una nuova delusione sentimentale scateni nuove, incontrollabili reazioni. Reazioni che si frapporrebbero al sogno di "un lavoro, una famiglia", espresso da un imputato ormai visibilmente scosso all'idea di vederlo allontanarsi.

Il procuratore pubblico: piano 'di stampo stragista'

Chiusa la fase istruttoria la parola passa alla pubblica accusa: "agghiacciante", "sconvolgente" gli aggettivi più ricorrenti nel corso dell'arringa. Il procuratore pubblico Arturo Garzoni parla subito di "uno dei casi più inquietanti della nostra storia giudiziaria", "un caso da incubo, da far gelare il sangue" che avrebbe pochi precedenti perfino a livello europeo. "L'imputato aveva preparato un dettagliato piano d'attacco" di "stampo stragista" – così Garzoni –, aveva acquistato numerose armi tra le quali un "micidiale" Smith & Wesson M&P-15 con tanto di caricatore a chiocciola per lo sparo in sequenza di 100 pallottole e puntatore laser, e si sarebbe recato al poligono di Croglio per allenarsi. Per non parlare dello studio ossessivo delle stragi americane e perfino delle istruzioni per fabbricare esplosivi. Un quadro "agghiacciante": "Queste armi non erano nelle mani di un neofita, ma di qualcuno che le sapeva utilizzare molto bene".

Ma il pp si sofferma anche sull'aspetto umano: "Tutto inizia quando l'imputato perde il posto di lavoro nel 2014: un errore che non si è mai perdonato", una "ferita nell'anima" che gli impedirebbe poi di gestire le delusioni d'amore e il senso di sfruttamento da parte dei compagni, incapaci di vedere dietro la maschera dello studente modello. 

'Non ha mai ammesso'

Garzoni ritiene che la durata, l'intensità e la concretezza dei suoi piani – il video d'addio fissa data e perfino ora precisa, le 11.15 – giustifichino senza dubbio una condanna per atti preparatori di assassinio plurimo, alimentata dalla "volontà ben radicata" di "far male agli altri per fare male a se stesso". E ricorda come il giovane, – "persona molto intelligente" – fino all'udienza di stamane non avesse mai ammesso il fatto di essere pronto a passare dalle parole ai fatti: un'ammissione che farebbe ipotizzare qualcosa di ben più grave del "grido d'aiuto": "Questo è quello che ci aveva voluto far credere", ma gli sforzi andrebbero oltre, fermo restando che in ogni caso il pericolo creato giustificherebbe in ogni caso l'imputazione. Assassinio, non omicidio: ovvero con l'aggravante del movente perverso e vendicativo e dell'efferatezza data dall'intenzione di uccidere indiscriminatamente più persone possibile". Escluso, invece, il "punto di non ritorno" che aggraverebbe le accuse al livello di "tentato assassinio": una fattispecie ipotizzabile solo se il giovane fosse stato fermato proprio mentre si recava a uccidere, secondo criteri di vicinanza temporale e fisica al delitto.

Quanto all'infrazione alla legge sulle armi, Garzoni sottolinea l'ammissione stessa dell'imputato – comprovata dalla detenzione di accessori "vietatissimi" come i puntatori laser per agevolare la messa a bersaglio – e ricorda alcuni episodi di porto d'armi illegale per alcune esercitazioni sui monti di Daro. 

Dal foyer alla clinica

La pubblica accusa sottolinea infine, oltre al pericolo, il fatto che l'imputato non abbia voluto fermarsi come suggerito dalle persone a lui vicine. Una determinazione che aggraverebbe la colpa, negherebbe l'accesso alle attenuanti e giustificherebbe una pena detentiva di 7 anni e mezzo. Tuttavia c'è da tenere in conto il disturbo psichiatrico "strutturato" che pare persistere anche dopo l'arresto, che insieme all'"adesione superficiale" dimostrato finora vero le terapie comporterebbe "un serio rischio di recidiva". Si chiede quindi la sospensione della pena a favore di un trattamento stazionario, ovvero un ricovero "presso una struttura psichiatrica idonea" per "contenere la pericolosità sociale tuttora data". 

 

(in aggiornamento)

 

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