I diplomatici ticinesi incontrano la gente: cronaca di una giornata da Lugano a Bellinzona. Racconti di una professione talvolta prigioniera di stereotipi.
Passaporti e altri documenti d’identità, un bicchiere da champagne e l’immancabile valigia. Allo stand allestito davanti all’Usi dal Dipartimento federale degli affari esteri (Dfae) spiccano quelli che sono, ciascuno a proprio modo, emblemi della vita di ambasciatori e consoli. Rappresentano, rispettivamente, «la prima associazione che il cittadino comune fa pensando a questo mestiere, uno stereotipo legato ai ricevimenti e un oggetto indispensabile per chi decide di intraprendere questa via professionale», ci spiegano. Le tappe luganese e bellinzonese sono state solo una parte del tour che dal 19 agosto al 6 settembre sta portando il personale diplomatico ai quattro angoli della Svizzera. Un viaggio – più breve rispetto a quelli ai quali sono abituati – per presentarsi e per rispondere a domande e curiosità della popolazione. Ieri è toccato al Ticino.
«Una volta, ad avviarsi a questa carriera erano quasi esclusivamente avvocati ed economisti» ricorda Gabriele Derighetti. «Da circa venti/trenta anni le cose sono cambiate. C’è esigenza di varie professionalità: dai medici ai teologi, dagli storici agli ingegneri. Una composizione diversa delle missioni diplomatiche aiuta, ci sono più punti di vista e più ricchezza nell’affrontare le problematiche. E la Svizzera in questo è stata pioniera», aggiunge il responsabile della divisione Medio Oriente e Nord Africa del Dfae.
Pur essendo piccola, la Svizzera è molto attiva a livello internazionale. «Siamo uno dei paesi con la più densa rete di rappresentanze nel mondo (cfr. infografica, ndr)» sottolinea l’ambasciatrice in Libano Monica Schmutz-Kirgöz. Svariati gli ambiti nei quali i diplomatici sono attivi, a cominciare della promozione della pace. «In Camerun da due anni è in atto una ribellione – spiega Pietro Lazzeri, ambasciatore nel Paese africano –. La Svizzera ha costituito una piattaforma di dialogo e per l’accesso all’aiuto umanitario: siamo conosciuti per i nostri buoni uffici, per questo cerchiamo di far parlare le parti in conflitto, anche quando non è semplice». E in Camerun – dove coesistono circa duecento gruppi etnici –, il fatto di provenire da un Paese multiculturale «è un vantaggio».
«La Svizzera ha più di trenta accordi di libero scambio – porta l’attenzione sul côté economico l’ambasciatore designato per gli Emirati Arabi Uniti, Massimo Baggi –. Capita quindi che organizziamo incontri fra ditte elvetiche e locali, affinché si creino dei legami». Aiuto umanitario e promozione economica quindi. Ma non mancano momenti duri. Come il terremoto in Gujarat (India) che nel 2001 causò oltre 20’000 morti, o la recente crisi migratoria. «In Marocco – ancora Baggi –, da dove sono entrate più di 60’000 persone in Spagna nel 2018, gestiamo uno dei più grandi centri di aiuto umanitario per i migranti».
Bella o brutta che sia, i diplomatici hanno il privilegio d’immergersi in prima persona nell’attualità. «Abbiamo una disciplina di trasferimento alla quale siamo legati» osserva Stefano Lazzarotto, ambasciatore in Armenia. E non di rado capita che «dobbiamo improvvisarci cuochi, intrattenitori, cineasti» aggiunge riferendosi – ad esempio – alla controversa crisi che tra il 2008 e il 2010 travolse i rapporti tra Libia e Svizzera, durante la quale Lazzarotto fu inviato come mediatore trascorrendo molto tempo con gli ostaggi del regime di Gheddafi.
«Meno conosciuto del lavoro all’estero è quello che svolgiamo a Berna – valuta infine il capo del protocollo del Dfae Mauro Reina –. È molto discreto, dietro le quinte». E se la visita più difficile da organizzare nei tre anni in carica è stata quella del presidente Xi Jinping (nel 2017), in riferimento a quella più recente del segretario di Stato statunitense Mike Pompeo, Reina ha espresso rammarico per alcune spiacevoli conseguenze in particolare sulla viabilità ticinese.
Il viaggio degli ambasciatori fra la gente nel pomeriggio ha fatto tappa anche a Bellinzona. In piazza Nosetto ha stazionato per alcune ore un autopostale d’epoca dove i collaboratori del Dfae hanno dialogato con i passanti. Alla presenza di enti pubblici, autorità politiche locali e media, gli ospiti della giornata hanno parlato delle loro esperienze all’estero e di quella professione che li porta a viaggiare in Paesi che sono spesso teatro di tensioni e conflitti. In una vita con la valigia in mano, trovarsi a Bellinzona per alcuni di loro è stato ‘un ritorno a casa’. Massimo Baggi è infatti originario di Gorduno, mentre sono nati a Bellinzona Pietro Lazzeri e Stefano Lazzarotto, che si è definito un ‘granata Doc’. «È un piacere essere nel mio Comune per incontrarvi e parlarvi del mio lavoro, che non è fatto di soli cocktail e ricevimenti – esordisce Baggi con il sorriso – ma richiede grande flessibilità». Capacità di adattarsi a una nuova ‘casa’ che cambia ogni quattro anni, «siamo dei nomadi dei tempi moderni – evidenzia Baggi – e anche un po’ camaleonti».
In Svizzera la sicurezza è data per scontata, ma come ci si sente in un Paese dove ci sono tensioni politiche o guerre civili? Lazzarotto ammette: non sempre ci si sente tranquilli. «Ma non siamo soli e possiamo sempre contare su collaboratori con cui possiamo interagire». Inoltre, ogni ambasciata, spiega, è tenuta a fare riflessioni su tutti gli aspetti legati alla sicurezza e ai rischi principali a cui si è esposti all’estero. «Per prepararsi vengono elaborati degli scenari di risposta per far fronte ai problemi», rileva. Dispongono anche di strumenti di formazione, messi a disposizione dal centro di crisi di Berna, che è chiamato a gestire questo tipo di problemi. «Anche se spesso riscontriamo che è sul campo che si impara davvero, quando siamo esposti a situazioni reali». Dal canto suo Monica Schmutz-Kirgöz ricorda il disagio vissuto un paio di anni fa, quando il presidente turco Erdogan aveva fatto finire in prigione molti giornalisti. «In tutta la mia carriera, è stato l’unico momento in cui non mi sono sentita più a mio agio. Erano miei amici, a livello personale è stato molto difficile vedere la mia rete sparire e finire in carcere». Tutto sommato però, rileva Schmutz-Kirgöz, per gli svizzeri ci sono meno rischi: «Ad esempio in Libano, anche se giriamo con l’auto blindata, a differenza di altri ambasciatori possiamo andare ovunque; non siamo un bersaglio. Se qualcuno volesse rapire un ambasciatore, probabilmente non prenderebbe quello svizzero ma piuttosto quello americano».
«Facile non è». Sollecitata dal pubblico dell’auditorium dell’Usi, l’unica rappresentante femminile della compagine di ambasciatori ticinesi, Monica Schmutz-Kirgöz, ha spiegato cosa significhi essere una donna e dedicarsi alla carriera diplomatica. «Ormai, rispetto al genere, è più la funzione a contare – valuta l’ambasciatrice in Libano –. Bisogna chiaramente sapersi adeguare alle circostanze: quando devo incontrarmi con rappresentanti di Hezbollah (organizzazione libanese di stampo islamico-sciita, ndr) mi vesto adeguatamente». Più che il mestiere, le difficoltà riguardano in realtà la vita privata. «Circa il 60% dei dipendenti del Dfae è divorziato – spiega la diplomatica –, questo dato riguarda anche molte mie colleghe e diverse di loro non hanno figli. Non è il mio caso».
Schmutz-Kirgöz parla – con una franchezza e una naturalezza con le quali conquista l’auditorium – della propria storia. «Quando si fa questo lavoro, i trasferimenti vanno messi in conto. Questo implica per il proprio partner la necessità di reinventarsi e reinserirsi ogni volta. Al mio primo compagno questo non andava bene e quindi abbiamo divorziato. Il mio attuale marito invece è un accademico e ha accettato questa sfida, riuscendo a integrarsi anche professionalmente nei Paesi dove sono stata mandata». Una conciliabilità lavoro-famiglia non sempre semplice da gestire che riguarda anche eventuali figli. L’ambasciatrice ne ha due. «Hanno visto di più il padre, che me» ammette. Una testimonianza che, nonostante le difficoltà, è intrisa di positività.
«Io sono contentissima della mia professione – conclude la nostra interlocutrice –, che è la più bella al mondo. Abbiamo anche il privilegio di ‘vendere’ il prodotto più bello al mondo: la Svizzera, il Paese dei valori. E questo è significativo soprattutto oggi, che questi sono andati un po’ persi».