Ticino

La nostra vita da ambasciatori svizzeri

I diplomatici ticinesi incontrano la gente: cronaca di una giornata da Lugano a Bellinzona. Racconti di una professione talvolta prigioniera di stereotipi.

3 settembre 2019
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Passaporti e altri documenti d’identità, un bicchiere da champagne e l’immancabile valigia. Allo stand allestito davanti all’Usi dal Dipartimento federale degli affari esteri (Dfae) spiccano quelli che sono, ciascuno a proprio modo, emblemi della vita di ambasciatori e consoli. Rappresentano, rispettivamente, «la prima associazione che il cittadino comune fa pensando a questo mestiere, uno stereotipo legato ai ricevimenti e un oggetto indispensabile per chi decide di intraprendere questa via professionale», ci spiegano. Le tappe luganese e bellinzonese sono state solo una parte del tour che dal 19 agosto al 6 settembre sta portando il personale diplomatico ai quattro angoli della Svizzera. Un viaggio – più breve rispetto a quelli ai quali sono abituati – per presentarsi e per rispondere a domande e curiosità della popolazione. Ieri è toccato al Ticino.
«Una volta, ad avviarsi a questa carriera erano quasi esclusivamente avvocati ed economisti» ricorda Gabriele Derighetti. «Da circa venti/trenta anni le cose sono cambiate. C’è esigenza di varie professionalità: dai medici ai teologi, dagli storici agli ingegneri. Una composizione diversa delle missioni diplomatiche aiuta, ci sono più punti di vista e più ricchezza nell’affrontare le problematiche. E la Svizzera in questo è stata pioniera», aggiunge il responsabile della divisione Medio Oriente e Nord Africa del Dfae.

Pur essendo piccola, la Svizzera è molto attiva a livello internazionale. «Siamo uno dei paesi con la più densa rete di rappresentanze nel mondo (cfr. infografica, ndr)» sottolinea l’ambasciatrice in Libano Monica Schmutz-Kirgöz. Svariati gli ambiti nei quali i diplomatici sono attivi, a cominciare della promozione della pace. «In Camerun da due anni è in atto una ribellione – spiega Pietro Lazzeri, ambasciatore nel Paese africano –. La Svizzera ha costituito una piattaforma di dialogo e per l’accesso all’aiuto umanitario: siamo conosciuti per i nostri buoni uffici, per questo cerchiamo di far parlare le parti in conflitto, anche quando non è semplice». E in Camerun – dove coesistono circa duecento gruppi etnici –, il fatto di provenire da un Paese multiculturale «è un vantaggio».

«La Svizzera ha più di trenta accordi di libero scambio – porta l’attenzione sul côté economico l’ambasciatore designato per gli Emirati Arabi Uniti, Massimo Baggi –. Capita quindi che organizziamo incontri fra ditte elvetiche e locali, affinché si creino dei legami». Aiuto umanitario e promozione economica quindi. Ma non mancano momenti duri. Come il terremoto in Gujarat (India) che nel 2001 causò oltre 20’000 morti, o la recente crisi migratoria. «In Marocco – ancora Baggi –, da dove sono entrate più di 60’000 persone in Spagna nel 2018, gestiamo uno dei più grandi centri di aiuto umanitario per i migranti».

Bella o brutta che sia, i diplomatici hanno il privilegio d’immergersi in prima persona nell’attualità. «Abbiamo una disciplina di trasferimento alla quale siamo legati» osserva Stefano Lazzarotto, ambasciatore in Armenia. E non di rado capita che «dobbiamo improvvisarci cuochi, intrattenitori, cineasti» aggiunge riferendosi – ad esempio – alla controversa crisi che tra il 2008 e il 2010 travolse i rapporti tra Libia e Svizzera, durante la quale Lazzarotto fu inviato come mediatore trascorrendo molto tempo con gli ostaggi del regime di Gheddafi.

«Meno conosciuto del lavoro all’estero è quello che svolgiamo a Berna – valuta infine il capo del protocollo del Dfae Mauro Reina –. È molto discreto, dietro le quinte». E se la visita più difficile da organizzare nei tre anni in carica è stata quella del presidente Xi Jinping (nel 2017), in riferimento a quella più recente del segretario di Stato statunitense Mike Pompeo, Reina ha espresso rammarico per alcune spiacevoli conseguenze in particolare sulla viabilità ticinese.

Ogni quattro anni un nuovo Paese: ‘Siamo nomadi dei tempi moderni’

Il viaggio degli ambasciatori fra la gente nel pomeriggio ha fatto tappa anche a Bellinzona. In piazza Nosetto ha stazionato per alcune ore un autopostale d’epoca dove i collaboratori del Dfae hanno dialogato con i passanti. Alla presenza di enti pubblici, autorità politiche locali e media, gli ospiti della giornata hanno parlato delle loro esperienze all’estero e di quella professione che li porta a viaggiare in Paesi che sono spesso teatro di tensioni e conflitti. In una vita con la valigia in mano, trovarsi a Bellinzona per alcuni di loro è stato ‘un ritorno a casa’. Massimo Baggi è infatti originario di Gorduno, mentre sono nati a Bellinzona Pietro Lazzeri e Stefano Lazzarotto, che si è definito un ‘granata Doc’. «È un piacere essere nel mio Comune per incontrarvi e parlarvi del mio lavoro, che non è fatto di soli cocktail e ricevimenti – esordisce Baggi con il sorriso – ma richiede grande flessibilità». Capacità di adattarsi a una nuova ‘casa’ che cambia ogni quattro anni, «siamo dei nomadi dei tempi moderni – evidenzia Baggi – e anche un po’ camaleonti».

In Svizzera la sicurezza è data per scontata, ma come ci si sente in un Paese dove ci sono tensioni politiche o guerre civili? Lazzarotto ammette: non sempre ci si sente tranquilli. «Ma non siamo soli e possiamo sempre contare su collaboratori con cui possiamo interagire». Inoltre, ogni ambasciata, spiega, è tenuta a fare riflessioni su tutti gli aspetti legati alla sicurezza e ai rischi principali a cui si è esposti all’estero. «Per prepararsi vengono elaborati degli scenari di risposta per far fronte ai problemi», rileva. Dispongono anche di strumenti di formazione, messi a disposizione dal centro di crisi di Berna, che è chiamato a gestire questo tipo di problemi. «Anche se spesso riscontriamo che è sul campo che si impara davvero, quando siamo esposti a situazioni reali». Dal canto suo Monica Schmutz-Kirgöz ricorda il disagio vissuto un paio di anni fa, quando il presidente turco Erdogan aveva fatto finire in prigione molti giornalisti. «In tutta la mia carriera, è stato l’unico momento in cui non mi sono sentita più a mio agio. Erano miei amici, a livello personale è stato molto difficile vedere la mia rete sparire e finire in carcere». Tutto sommato però, rileva Schmutz-Kirgöz, per gli svizzeri ci sono meno rischi: «Ad esempio in Libano, anche se giriamo con l’auto blindata, a differenza di altri ambasciatori possiamo andare ovunque; non siamo un bersaglio. Se qualcuno volesse rapire un ambasciatore, probabilmente non prenderebbe quello svizzero ma piuttosto quello americano». 

Essere donna? ‘Facile non è. Ma è la professione più bella al mondo’

«Facile non è». Sollecitata dal pubblico dell’auditorium dell’Usi, l’unica rappresentante femminile della compagine di ambasciatori ticinesi, Monica Schmutz-Kirgöz, ha spiegato cosa significhi essere una donna e dedicarsi alla carriera diplomatica. «Ormai, rispetto al genere, è più la funzione a contare – valuta l’ambasciatrice in Libano –. Bisogna chiaramente sapersi adeguare alle circostanze: quando devo incontrarmi con rappresentanti di Hezbollah (organizzazione libanese di stampo islamico-sciita, ndr) mi vesto adeguatamente». Più che il mestiere, le difficoltà riguardano in realtà la vita privata. «Circa il 60% dei dipendenti del Dfae è divorziato – spiega la diplomatica –, questo dato riguarda anche molte mie colleghe e diverse di loro non hanno figli. Non è il mio caso».

Schmutz-Kirgöz parla – con una franchezza e una naturalezza con le quali conquista l’auditorium – della propria storia. «Quando si fa questo lavoro, i trasferimenti vanno messi in conto. Questo implica per il proprio partner la necessità di reinventarsi e reinserirsi ogni volta. Al mio primo compagno questo non andava bene e quindi abbiamo divorziato. Il mio attuale marito invece è un accademico e ha accettato questa sfida, riuscendo a integrarsi anche professionalmente nei Paesi dove sono stata mandata». Una conciliabilità lavoro-famiglia non sempre semplice da gestire che riguarda anche eventuali figli. L’ambasciatrice ne ha due. «Hanno visto di più il padre, che me» ammette. Una testimonianza che, nonostante le difficoltà, è intrisa di positività.

«Io sono contentissima della mia professione – conclude la nostra interlocutrice –, che è la più bella al mondo. Abbiamo anche il privilegio di ‘vendere’ il prodotto più bello al mondo: la Svizzera, il Paese dei valori. E questo è significativo soprattutto oggi, che questi sono andati un po’ persi».

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