Ticino

Ammalati di violenza, come aiutare i migranti

Curare un rifugiato e gestire al meglio tutti i suoi fardelli è una sfida per il sistema sanitario, la parola alla dottoressa Mirjam Rodella Sapia

foto keystone
24 giugno 2019
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Non sanno l’italiano, nel loro Paese il guaritore è più popolare del medico, non si fidano dell’autorità. Alle spalle molti migranti hanno traumi pesanti. Spesso restano sepolti nel loro intimo col rischio di trasformasi in depressione, anoressia, alcolismo. E costi sociali per la collettività del Paese che li accoglie. Per migliorare la presa a carico occorre avere medici, ginecologi e psicologi più preparati. Curare un rifugiato e gestire al meglio tutti i suoi fardelli è una sfida per il sistema sanitario, come ci spiega la dott. Mirjam Rodella Sapia, medico di famiglia e docente alla Supsi, che ha svolto una ricerca all’Università di Basilea sull’accesso alle cure delle vittime di violenze di genere nel contesto dell’asilo in Svizzera. L’abbiamo incontrata al convegno organizzato dall’Associazione per l’aiuto medico al Centro America a Lugano.

Quale è la violenza più diffusa?

È sempre quella dentro le mura domestiche. Nelle zone di conflitto armato c’è un aumento di violenza sessuale e socioeconomica. Nei campi profughi, negli ultimi anni, c’è un aumento dei matrimoni forzati o tra minorenni. Non disponiamo di cifre affidabili sulla prevalenza della violenza di genere nella popolazione migrante. Si stima che quasi tutte le ragazze, che hanno attraversato la rotta libica, abbiano subito violenze sessuali.

Quali tracce lasciano nel corpo e nella mente dei migranti questi abusi?

Le conseguenze possono manifestarsi a breve, medio o lungo termine. Possiamo trovare una sofferenza psicologica importante (sindrome da stress post-traumatico, ansie, depressione e altro), l’insorgenza di malattie internistiche (malattie cardiovascolari, ipertensione arteriosa), di malattie somatoformi (colon irritabile, dolore cronico, dolore pelvico), di malattie sessualmente trasmissibili (Hiv, epatiti) e di dipendenze (tabagismo, alcoolismo, droghe), per citarne alcune. Le gravidanze hanno più complicazioni e il bebè può presentare un basso peso alla nascita. La paura influisce inoltre in modo negativo sulla ricerca di aiuto.

Quali sono le sfide per il sistema sanitario per aiutare queste persone a fidarsi, a raccontare i traumi vissuti ed elaborarli?

Bisogna creare un rapporto di fiducia tra vittima e curante, ma anche fiducia nel sistema sanitario e legislativo del Paese ospitante. Queste persone arrivano da una realtà dove non avevano diritti e, spesso, vivevano nell’illegalità. Per loro è molto difficile capire che, quando diventano richiedenti l’asilo, hanno uno statuto politico e diventano delle persone ‘legali’, quindi protette dalla legge svizzera. I richiedenti l’asilo, al loro arrivo in Svizzera, vengono collocati nei centri federali di prima accoglienza. Sin dall’entrata nel Paese ci sono professionisti di vari campi disponibili ad identificare le vittime di violenza di genere. Nei centri d’accoglienza vi è del personale sanitario che mostra una grande sensibilità.

Medici e ospedali sono abbastanza formati per riconoscere e gestire queste sofferenze?

Esiste una rete di ospedali con una particolare attenzione nella presa a carico dei migranti (Swiss Hospitals for Equity). Diverse università e Ong offrono dei corsi di ‘competenze transculturali’ per i professionisti della salute. Certo sarebbe bello e utile poter espandere la rete anche a livello extra-ospedaliero (medici di famiglia, ginecologi, psicologi).

C’è un momento giusto per parlare di questi traumi e scongiurare così che si trasformino in malattia? Oltre alla sofferenza sono costi per la collettività.

L’elaborazione dell’esperienza traumatica è individuale. Alcuni non ne vogliono più parlare, altri cercano aiuto. Il ‘momento giusto’ non esiste. Il background socioculturale come la struttura familiare influiscono sulla ricerca d’aiuto. Le donne che si spostano in famiglia, spesso dalla Siria, possono essere circondate da persone di fiducia (madre, sorella, zia) con cui si possono confidare. Diventa invece più difficile per chi arriva da solo, come le ragazze della zona Sub-sahariana. La vergogna sociale (ed esempio, di non più essere vergine) può essere un ostacolo importante all’accesso professionale.

 

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