Ticino

'Io vittima, ho taciuto per 60 anni perché mi vergognavo'

Strappato a sua madre e collocato in istituto a Pura perché figlio illegittimo. Quelli come Sergio Devecchi a Lugano dovevano sparire

(foto Ti-Press)
28 marzo 2018
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«Sono una vittima delle cosiddette misure coercitive a scopo assistenziale. Ma quale assistenza? In realtà lo Stato mi ha ripudiato sin dalla nascita, mi ha messo in un angolo, abbandonato ad un’infanzia e un’adolescenza tormentate e mortificanti». Un senso di vergogna gli ha impedito di parlare per tanti anni. Oggi Sergio Devecchi è in pensione, pedagogista, ha diretto un istituto a Zurigo, presieduto la Società svizzera di pedagogia sociale, sempre celando il suo passato di figlio illegittimo cresciuto in orfanotrofi tra Ticino e Grigioni dove è stato vittima di pesanti maltrattamenti.

Il pensionato, era ieri nell’aula del Gran Consiglio, quando il presidente del Consiglio di Stato Manuele Bertoli ha presentato le scuse ufficiali delle autorità per i gravi torti inflitti alle vittime. In Ticino, oltre 160 vittime si sono rivolte ai servizi cantonali per ricevere sostegno o ricercare documentazione. Da bambini, lo Stato li ha privati della loro libertà, li ha strappati ai genitori e piazzati in istituti, in riformatori dove molti sono stati maltrattati e abusati. La loro unica colpa era essere ‘illegittimi’, orfani, figli di donne sole, povere o di etnia nomade. Misure disposte spesso senza processo né possibilità di ricorso. Questo avveniva in Svizzera fino al 1981, Ticino compreso. 

«La mia colpa? Sono un figlio illegittimo. Mia madre, cresciuta in una famiglia di modeste condizioni, aveva 19 anni quando ha avuto un’avventura amorosa con mio padre, anch’egli appena diciannovenne. Non l’ho mai conosciuto. Sono stato strappato a mia madre quand’ero un bebè. Mi hanno portato in un istituto. Ho vissuto lì per 17 anni. Sin dall’infanzia sono stato usato come una docile forza lavoro plasmata dalle preghiere, da una ferrea disciplina, da una cieca obbedienza», ha raccontato ieri.
A Lugano, quelli come lui, dovevano sparire, finivano in orfanotrofio.

«Ho incontrato una sola volta il mio tutore. Ero un ragazzino di 11 anni quando mi ha prelevato dall’istituto ‘Dio aiuta’ di Pura. Mi ha portato all’istituto ‘Von Mentlen’ di Bellinzona. Non mi ha neppure rivolto la parola, è rimasto muto per tutto il tempo. Sono poi stato trasferito in altri istituti. La tristezza di quegli anni non mi ha più abbandonato. Sono ferite molto profonde. Le mie domande rimanevano senza risposta. Un bambino che non sa nulla sulle circostanze della sua nascita, crede che in lui vi sia qualcosa d’infamante, di sporco, di cattivo».

Ancora oggi Devecchi, che lotta al fianco di tante vittime, non sa chi ha deciso a Lugano per la sua vita («molti dossier sono stati deliberatamente distrutti») e ammette una verità comune a tante vittime: «Per decenni la società ha rimosso questo capitolo oscuro della storia svizzera. Anch’io ho nascosto la mia vita d’internato persino a persone che mi erano vicine, e questo per ben 60 anni. Non riuscivo a parlarne perché avevo interiorizzato un senso di vergogna e di colpa. Erano come due fratelli gemelli. Mi hanno preso in una morsa. Non riuscivo a liberarmene. Neppure quando dopo il mio internamento sono diventato, ironia del destino, direttore di alcuni istituti giovanili nella Svizzera interna». La sua storia è diventata un libro che ha dato forza ad altri.

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