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Una giovane ticinese in prima linea per la lotta all’Alzheimer

Gea Cereghetti, originaria di Morbio Inferiore, ha ricevuto il Premio Sais per la sua tesi sulla reversibilità delle ‘placche’ tipiche della malattia

Gea Cereghetti con l’ambasciatore d’Italia in Svizzera Silvio Mignano

Un processo che sembrava irreversibile, ma che, grazie alla ricerca scientifica, si è scoperto non essere così. Stiamo parlando della formazione di aggregati proteici, anche detti ‘placche’, che caratterizzano diverse malattie neurodegenerative come l’Alzheimer. Una scoperta alla quale ha contribuito la giovane Gea Cereghetti, classe 1991, originaria di Morbio Inferiore. Lo scorso 1° giugno ha infatti ricevuto il premio 2023 della Società degli Accademici Italiani in Svizzera (Sais), riservato alla migliore tesi di dottorato nel campo delle Scienze della vita. In quanto, si legge nella motivazione, “ha applicato con successo metodi innovativi per dimostrare la reversibilità dell’aggregazione proteica (...). Il lavoro svolto apre la porta allo sviluppo di strategie terapeutiche innovanti”. La tesi era già stata premiata con la Eth Medal anche dal Politecnico di Zurigo (Ethz), dove l’ha elaborata sotto la direzione del professor Matthias Peter. Ora la ricercatrice si trova in Inghilterra, all’Università di Cambridge, dove sta svolgendo un post dottorato presso il laboratorio del professor Tuomas Knowles.

Nelle malattie neurodegenerative si sente spesso parlare di placche, ma cosa sono?

Le malattie neurodegenerative sono caratterizzate dalla formazione di grumi di proteine, da noi chiamati anche aggregati o talvolta placche, che di solito si accumulano nel cervello alterandone l’omeostasi e causando diversi problemi come per esempio la perdita di memoria. Attualmente la scienza non conosce ancora bene i meccanismi cellulari e molecolari che conducono alla formazione di questi aggregati, né si conoscono metodi efficienti per rimuoverli. Quello che abbiamo cercato di fare all’Ethz è stato capire quale fosse il meccanismo di scioglimento di questi grumi. Un punto di partenza importante che potrebbe favorire lo sviluppo di nuovi medicamenti.

Voi puntate però a prevenirne la formazione.

Sì, la speranza è quella di riuscire a intervenire prima, in modo da prevenire i danni neuronali. Negli Usa è già in commercio un farmaco, un anticorpo monoclonale che agisce sui grumi. Purtroppo, però, non è sufficiente a fermare completamente la malattia. Noi stiamo cercando di comprendere quali siano i meccanismi già presenti nelle cellule che aiutano a prevenire la formazione dei grumi o a scioglierli una volta formati. Capendo ciò, potremmo pensare per esempio a farmaci che, invece di attivare un meccanismo completamente diverso, potenzino semplicemente quello che la cellula già ha in sé.

Cosa avete scoperto finora?

Abbiamo individuato un meccanismo che è conservato evolutivamente in qualsiasi tipo di cellula, non solo in quelle umane, e che è in grado di controllare la formazione di questi aggregati proteici, che chiamiamo amiloidi.

Quali sono le tempistiche per rendere questa scoperta un farmaco?

Difficilissimo dirlo. Ci sono veramente tante incognite. In ogni caso negli ultimi anni sono stati fatti enormi passi avanti, sia con alcuni farmaci sia con la ricerca di base. In passato queste malattie erano genericamente considerate delle demenze senili. Ora riusciamo a distinguere i vari tipi di neurodegenerazione e sappiamo dove agire per provare a prevenirli e a curarli. Proprio sugli amiloidi la conoscenza è aumentata.

In quali malattie sono presenti questi grumi?

L’Alzheimer, il Parkinson, l’Huntington, la Sla... la lista è lunga. A seconda della patologia, gli aggregati sono formati da proteine diverse. Le malattie neurodegenerative sono accomunate dal fatto che per ora sono praticamente incurabili e i pochi farmaci a disposizione semplicemente ne ritardano il decorso o migliorano leggermente i sintomi.

Riguardo al suo lavoro di dottorato, in cosa si distingue da altri?

Invece di cercare direttamente una terapia o un farmaco, noi facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire che cosa causi la malattia, qual è il meccanismo che ci sta dietro. Questa ricerca di base prende molto più tempo, ma quando si arriva a una scoperta questa ha la potenzialità di cambiare il nostro punto di vista sulla malattia. Fino a pochi anni fa si pensava che la formazione di questi amiloidi fosse irreversibile e che essi fossero necessariamente patologici. Invece abbiamo scoperto che, in alcune condizioni cellulari, gli amiloidi possono essere sciolti e non necessariamente portano allo sviluppo di una malattia. Si tratta di un cambiamento importante nel modo di concepire l’aggregazione. Per questo motivo sono molto contenta di aver ricevuto il Premio Sais: esso conferma che la direzione di studio da noi intrapresa è giusta e ciò mi sprona a continuare. Il fatto che in Svizzera venga promossa la ricerca di base credo sia un vero punto di forza.

Si tratta di patologie sempre più comuni…

Sì, è un problema che cresce con l’invecchiamento della popolazione. Per questo motivo siamo in moltissimi a studiarle e i governi hanno investito parecchio in questa direzione. In ogni maggiore università ci sono più gruppi che lavorano nel campo. Nel laboratorio in cui opero attualmente siamo circa cinquanta ricercatori.

Temi importanti di salute pubblica, ma quali sono le difficoltà di voi ricercatori?

Una riguarda il lato scientifico e tecnico. Le malattie neurodegenerative sono estremamente complesse e coinvolgono diversi fattori, come il metabolismo e le mutazioni genetiche. Dunque il loro studio richiede un approccio multidisciplinare, diverse competenze in più campi e, di conseguenza, anche molto tempo.

Un’altra importante difficoltà riguarda in particolare la Svizzera e il Regno Unito, Paesi che non fanno parte dell’Unione europea, che sono esclusi da diversi concorsi e programmi europei, come Horizon Europe. Un esempio personale: per finanziare la mia ricerca a Cambridge, ho partecipato a un concorso, e sono stata selezionata per una delle maggiori borse di studio europee, la Marie Skłodowska-Curie Fellowship, classificandomi tra i migliori dieci progetti europei di chimica su oltre novecento presentati. Tuttavia, svolgendo la ricerca in Inghilterra, non mi sarà possibile usufruire concretamente di questi fondi e devo quindi cercare altri finanziamenti.

In Svizzera com’è la situazione a livello di fondi?

In particolare nel mio campo, gli investimenti sono importanti e le condizioni abbastanza buone. La mia tesi di dottorato è stata sostenuta da una borsa di studio del Politecnico, una del Fondo nazionale svizzero per la ricerca e dalla Fondazione Synapsis. Chiaramente l’attività di ricerca a livello accademico è molto competitiva. Bisogna pubblicare in fretta e i ritmi sono molto serrati.

Pensa di tornare o rimarrà all’estero?

Ho deciso di spostarmi all’Università di Cambridge per fare esperienza e acquisire nuove conoscenze e tecniche, con la speranza di poterle riportare un giorno in Svizzera. Penso che come me tanti altri giovani desiderino tornare. Se si presentasse l’occasione, anche in Ticino, non solo in Svizzera.

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