La Corte delle Assise criminali di Lugano ha ritenuto che non ci fossero sufficienti prove a carico dell’imputato per pronunciare una condanna
La storia di fondo delle chiamate shock a scopo di truffa è sempre la stessa. Ma oggi il finale è stato diverso. Alla sbarra delle Assise criminali di Lugano, l’imputato, un 51enne cittadino svedese, è stato prosciolto dalle accuse e torna a essere un uomo libero. Per la Corte, presieduta dal giudice Siro Quadri, non vi erano sufficienti indizi a carico dell’uomo e ha dunque applicato il principio in dubio pro reo. «Se il fatto che ci sia stata una truffa difficilmente può essere messo in dubbio, le fotografie non sono sufficienti per dare per certo che fosse lui a guidare l’auto noleggiata per la spedizione in Svizzera». Inoltre, ha aggiunto Quadri, «la vittima non ha riconosciuto l’imputato».
Secondo l’accusa invece – rappresentata dalla procuratrice pubblica Margherita Lanzillo – il 51enne, insieme a una correa (cugina della sua attuale compagna) avrebbe truffato una donna del Luganese per 90mila franchi. “Tuo figlio ha avuto un incidente stradale e ha causato la morte di un 44enne e il ferimento di un’altra persona”. Questa la frase che avrebbe spinto la vittima a consegnare loro l’ingente somma di denaro. Il tutto nel giro di poche ore, «una toccata e fuga», come l’ha definita Lanzillo. Sì, perché la pp ha sostenuto che l’imputato insieme alla donna sarebbe entrato in Svizzera alle 16 del 20 febbraio scorso e uscito verso le 17.40. In poco più di un’ora e mezza avrebbe chiamato la vittima con l’ausilio di correi fingendosi un agente di polizia chiamato Rossi, sganciato la frase ‘bomba’ e indotto la donna a consegnare alla sua ‘collega’ i 90mila franchi, mentre lui guidava l’auto.
La frase che hanno utilizzato non è isolata, ma parte integrante di un sistema consolidato di truffe. È proprio di ieri il comunicato della Polizia cantonale che ha nuovamente messo in guardia la popolazione in merito alle cosiddette chiamate shock da parte di un falso poliziotto. Un fenomeno, ha detto Lanzillo, «che rappresenta un problema sociale importante perché è in evoluzione. Il modus operandi: danno alla vittima una dimensione di urgenza, questo serve per impedirle di parlare con altri, di farsi consigliare oppure di avere il tempo di riflettere su quanto sta accadendo. Gli autori di questo tipo di reati sono viscidi nel modo in cui si approcciano alla vittima. Vittime spesso sole e vulnerabili con un grande bisogno di contatto che, alla notizia di un incidente o di una malattia di un loro parente, vanno in panico e in preda alle proprie emozioni consegnano il denaro in tempi celeri». Lanzillo aveva formulato una richiesta di pena di 28 mesi di cui 14 da espiare e l’espulsione dalla Svizzera per 10 anni.
Dal canto suo, il difensore, l’avvocato Stefano Camponovo, aveva chiesto il proscioglimento del suo assistito e un risarcimento per il tempo trascorso dietro le sbarre. «Stiamo processando una persona senza prove. La vittima non ha riconosciuto l’imputato e neanche la sua correa al 100%. In più, la fotografia che proverebbe che lui era al volante della macchina, mostra soltanto una barba, che potrebbe essere di chiunque».