Luganese

Suicidio di Arash, la comunità afghana punta alla prevenzione

Organizzata una serie di incontri con uno specialista in lingua farsi. Intanto, la salma del richiedente l'asilo è stata rimpatriata circa un mese fa

Il centro di Cadro, dove il giovane si è tolto la vita l’11 luglio
(Ti-Press)
24 agosto 2023
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Una serie di incontri, a partire dal prossimo sabato 26 agosto, rivolti ai connazionali per approfondire i temi legati al disagio psicologico. A circa un mese e mezzo dal suicidio del giovane Arash, richiedente l’asilo ospite del centro gestito dalla Croce Rossa Svizzera del Sottoceneri (Crss) di Cadro, la mobilitazione della comunità afghana continua. Il suicidio del 20enne è stato infatti il terzo di un membro della comunità solo nell’ultimo anno nel cantone. Ne abbiamo parlato con Jamileh Amini, mediatrice interculturale e afghana residente da diversi anni a Lugano.

Un workshop mensile in farsi rivolto ai giovani

«Quel che è successo ad Arash ci ha colpiti profondamente ed è stato il terzo suicidio di un richiedente asilo in un anno (gli altri due non erano ospitati in centri gestiti dalla Crss, ndr). Per questo abbiamo deciso di reagire». Come? «Questo sabato, 26 agosto, abbiamo organizzato un workshop con un medico e psicologo afghano che lavora in una clinica a Ginevra, il dottor Assad Badi. Ha accettato la nostra richiesta di venire a Lugano e vorremmo che questi workshop diventassero degli appuntamenti mensili, se possibile. Si tratta di incontri che si svolgeranno in lingua farsi e quindi rivolti a membri della comunità afghana, in particolare ai giovani, che avranno la possibilità di parlare dei problemi che li affliggono e di confrontarsi con qualcuno che non solo è uno specialista ma ha anche le medesime origini culturali». Il primo incontro si terrà al Centro Cittadella, dove si era già tenuta la cerimonia di commemorazione per Arash. «Speriamo che serva a qualcosa, perché tutti noi vorremmo evitare che capiti di nuovo – valuta la nostra interlocutrice –. È importante affrontare il più possibile le tematiche del disagio psicologico affinché non restino dei temi tabù e crediamo che sia utile farlo assieme, chi è qui da dieci giorni con chi è qui da dieci anni».

‘La chiave è l’occupazione’

Allargando il discorso, Amini osserva che «quando il flusso migratorio riguarda i minorenni si creano diverse problematiche per questi giovani. Pensiamo alla storia di Arash, che ha lasciato il suo Paese, facendo tutto il viaggio a piedi e affidandosi ai passatori che, diciamolo pure, si occupano di tratta di esseri umani. Con lo scopo di arrivare in Svizzera per costruire una vita dignitosa per sé e per la famiglia rimasta nel Paese d’origine. Quando questi ragazzi lasciano le proprie famiglie, ricevono un compito che è quello di andare nei Paesi ricchi per poterle aiutare economicamente. Quando però non riescono a raggiungere questo obiettivo, si sentono inutili. Ed è quel che è successo ad Arash, che una volta arrivato in Svizzera ha trascorso quattro anni fra un centro per richiedenti asilo e l’altro». Un senso di inutilità, nonostante i diversi strumenti messi in campo nell’ambito della presa a carico. «Noi crediamo che il lavoro sia una delle chiavi per risolvere questo disagio – valuta la mediatrice –, oltre che per stare bene con sé stessi e per migliorare la propria autostima. Se un’integrazione professionale non è possibile fin da subito, si potrebbero aumentare ulteriormente i lavori sociali nei quali vengono coinvolti i richiedenti asilo».

Rimpatriata la salma di Arash

Tornando al caso di Arash, Amini ci riferisce che la salma del giovane è stata restituita alla famiglia. Questo, grazie all’intervento delle autorità, che ne hanno preso a carico il rimpatrio. Un gesto che non era scontato, né dovuto per legge, al punto che la comunità afghana ticinese aveva cominciato a organizzarsi per effettuare una colletta. «Ma alla fine non ce n’è stato bisogno: il trasporto è stato organizzato dalla Crss che, con l’aiuto dello Stato, è riuscita a trasportare la salma fino a Islamabad (Pakistan, ndr) e da lì la famiglia l’ha portata in Afghanistan. Temevamo che per il rimpatrio ci sarebbe voluto molto tempo, vista anche la situazione politica in Afghanistan, invece per fortuna le autorità sono riuscite a fare tutto nel giro di un paio di settimane. Anche se non abbiamo dovuto contribuire, abbiamo deciso di raccogliere comunque una piccola somma di denaro da inviare alla famiglia».

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