Scatta oggi la petizione a favore della famiglia curda di Riazzino per cui è già stato deciso il rimpatrio forzato in Turchia
Ansia, preoccupazione e anche un senso di sradicamento preventivo. Sono i brutti sentimenti che accompagnano la famiglia curda dei Pokerce, residente a Riazzino, durante il periodo che precede l’ordine esecutivo di lasciare il territorio svizzero, così come stabilito dalla Sem prima e dal Tribunale amministrativo federale poi.
La storia di Zelal, 20 anni, figlia primogenita di mamma Muhterem e papà Yahya, l’abbiamo raccontata negli scorsi giorni annunciando il lancio, a giorni, di una petizione promossa dagli amici di Zelal e di suo fratello Yekta all’indirizzo del Consiglio di Stato. Raccolta di firme che scatta proprio oggi con l’obiettivo che il governo interceda con l’Ufficio della migrazione per consentire ai due ragazzi di terminare studi e formazione nell’attesa che la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) si esprima su un ricorso dell’avvocata Immacolata Iglio Rezzonico. Al momento i Pokerce sono senza permessi e, nell’ambito del cosiddetto “aiuto d’urgenza”, ai maggiorenni non è consentito né studiare, né lavorare (con tanti complimenti al legislatore).
Non bastasse l’angoscia di Zelal e Yekta, in questa vicenda c’è da mettere in conto quella dei genitori per il destino del più piccolo dei fratelli, l’11enne Azad, che è autistico e frequenta la seconda elementare alla scuola speciale di Riazzino. Un rimpatrio forzato in Turchia interromperebbe il fragile percorso educativo e di inserimento sociale di Azad, oltre ad avere altre serissime conseguenze: impedirebbe a Zelal di continuare a frequentare la Scuola superiore specializzata in arte applicata (Sss’aa) della Csia – dove emerge come allieva modello – e a Yakta di proseguire la sua formazione come elettricista fra Lamone e il Cpt di Mendrisio. In più, un rimpatrio manderebbe papà Yahya direttamente in una prigione turca, dove il governo Erdogan intende rinchiuderlo per aver condiviso in Facebook, anni fa, una vignetta sul presidente.
Proprio di questo parla Zelal in una lettera scritta alle autorità per illustrare la sua situazione e quella della sua famiglia. La giovane vi sottolinea “i gravi rischi e le conseguenze negative che deriverebbero da un mio forzato rimpatrio in Turchia” e chiede alla Svizzera “che le discriminazioni, l’emarginazione e i pericoli fisici a cui sarei esposta a causa della mia identità curda vengano valutati nel rispetto dei principi fondamentali dei diritti umani internazionali”. Crescere in Turchia come curda, sostiene Zelal per averlo vissuto, “è segnato da politiche discriminatorie contro i curdi. Fin dalla fondazione della Repubblica, l’identità curda è stata oggetto di politiche di oppressione, negazione e assimilazione. Dopo il colpo di Stato militare del 1980, queste pressioni si sono intensificate: migliaia di persone sono state costrette a migrare, i nomi dei villaggi sono stati cambiati e persino parlare curdo è stato considerato un reato. Ancora oggi, l’identità curda continua a essere bersaglio di discriminazioni e violenze. Chiunque sia associato a questa identità è percepito come una minaccia potenziale ed è privato dei propri diritti. Il diritto dei curdi alla rappresentanza democratica è costantemente ostacolato”.
Eppure, come ricordava l’avvocata Iglio Rezzonico, gli accordi fra Svizzera e Turchia hanno steso su queste verità un velo molto poco pietoso. Addirittura, rilevava la legale dei Pokerce (e di molte altre famiglie che si ritrovano in guai simili), una recente sentenza a Corti unificate del Tribunale amministrativo federale ha preso per buona la versione secondo cui tutti i curdi richiedenti l’asilo in Europa arriverebbero con dossier falsi, riportando procedimenti penali che in realtà non esistono. Si tratta di una verità alternativa dettata direttamente alle autorità elvetiche dal governo turco, che ha difeso il suo sistema giudiziario affermando che i rimpatri forzati non rappresentano, per i curdi, nessun problema.
In un’altra lettera Zelal ricordava una conquista importante: l’accesso alla Sss’aa della Csia, ottenuto grazie al riconoscimento di un talento maturato prima, in particolare, durante uno stage nel settore dei videogiochi e dei media digitali e in seguito messo a frutto come membro di comitato dell’Associazione Ludo Ticino, molto attiva nell’organizzazione di eventi legati ai videogiochi.
Ma evidentemente poco importa ad un Paese come la Svizzera, con la sua politica in materia d’asilo, se l’obiettivo di una felice integrazione nel tessuto sociale ed economico locale venga o meno raggiunto. Infatti, “abbiamo ricevuto un messaggio con l’ordine di ‘ritornare indietro’ – considera Zelal –. Nonostante numerose lettere di referenze siano state inviate per permetterci di completare gli studi in Svizzera, gli ostacoli burocratici hanno impedito il riconoscimento adeguato della nostra integrazione. In particolare, il fatto che le problematiche vissute da mio padre in Turchia – che lo hanno spinto a venire in Svizzera per evitare il carcere – siano state trascurate, così come le inquietanti minacce ricevute, ha messo seriamente a repentaglio il futuro della nostra famiglia. Questa situazione ha generato grande preoccupazione, soprattutto per il nostro fratellino Azad, affetto da autismo”.
Oggi scatta dunque la reazione di cuore della comunità ticinese che si è stretta attorno alla famiglia curda, e in particolare a Zelal e a suo fratello. All’esecutivo cantonale si era già rivolta individualmente la ministra socialista dell’Educazione Carobbio Guscetti, auspicando che ai ragazzi venisse consentito di terminare studi e formazione «perché il diritto alla formazione e la tutela dei diritti dei minori per tutti i bambini, le bambine e i giovani, indipendentemente dalla loro origine, sono per me una priorità», come aveva dichiarato alla ‘Regione’. Lo stesso identico scopo è perseguito da chi firmerà la petizione. “Se hai vent’anni non puoi passare le tue giornate a casa. Soprattutto se lì, a due passi da casa tua, c’è una scuola dove stavi andando e che ti interessa”, si legge nel testo accompagnatorio. Perché? è la domanda centrale che ci si pone di fronte al rifiuto di una famiglia che chiede solo di poter consolidare in pace la propria integrazione. “Che fastidio potranno mai dare due giovani con buona voglia di fare, con sete di vita e ottimi voti, se vanno a scuola invece di stare a casa?”.