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‘Sento la mia famiglia solo ogni 3 mesi’

Hiwet, giovane eritrea residente in Vallemaggia, racconta paure e difficoltà durante la pandemia, sue e della sua comunità insediata in Ticino

"La cosa più difficile è non poter stare insieme" (Ti-Press)
12 novembre 2020
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Quella di Hiwet Gebrekidan è una vita che ne contiene due. Due e un po’, se si considera il recente periodo che sta comportando, per tutti, una nuova quotidianità. Questi ultimi mesi li descrive come particolarmente difficili, lei che 5 anni fa è fuggita da sola dall’Eritrea e da allora si è ricostruita un'esistenza in Vallemaggia. «Sono preoccupata per il virus; l'aumento dei casi, le morti e le chiusure mi fanno paura» dice con un'inflessione di sconforto nella giovane voce.

Una famiglia irraggiungibile

La situazione a livello di contagi, secondo le informazioni ufficiali, è molto più grave in Svizzera che in Eritrea, ma i timori di Hiwet per le sorti del Paese africano sono comunque forti: «Non ci sono i morti per il virus come qua – spiega –, però hanno chiuso quasi tutto e c'è il rischio per una parte della popolazione di fare la fame. In Svizzera si può sempre andare al supermercato per comperare da mangiare, là invece il cibo si prende dall'agricoltore e dal pastore e in questo momento non è sempre possibile; non ci sono neanche più gli autobus per spostarsi». Oltre alla mobilità all’interno dei vari confini nazionali, ancor più quella internazionale è stata fortemente compromessa, con limitazioni alle frontiere e difficoltà nel viaggiare. Questo però non ha avuto particolari conseguenze per la giovane e i suoi cari, per una causa che sta a monte della pandemia: «Nel mio Paese io non posso più entrare perché sono scappata illegalmente». Completamente esclusa la possibilità d'incontrare i parenti; anche solo vederli virtualmente è un’impresa ardua: «I miei genitori sono contadini e vivono in un piccolo paese dove non c'è internet e dove il telefono non funziona sempre bene. Riesco a sentirli raramente, circa ogni tre mesi».

Isolamento crescente

Il fatto di non avere accanto la famiglia è dura e questo è uno dei problemi principali anche per le altre persone della comunità eritrea. «Per noi è difficile, perché come società siamo abituati a vivere in modo molto comunitario, gran parte della giornata la passiamo assieme a parenti e amici e si fa sempre visita ai vicini per vedere come stanno. Qui invece ci si vede molto meno». La propensione a una vita molto più individuale alle nostre latitudini si è ora ulteriormente intensificata e questo è fonte di grande sofferenza soprattutto per chi conosce poco la lingua e ha poche occasioni di praticarla. «Molti, quando incrociano altre persone, al massimo salutano e quasi nessuno chiede come va. Spesso vivono in grandi palazzi dove ora, ancora di più, stanno rinchiusi quasi tutto il tempo. È una situazione bruttissima».

Il valore d'incontrarsi

Gli ostacoli che comporta il tipo di migrazione che Hiwet ha affrontato sono molti, ma lei li sta superando uno a uno ed è ormai da lungo tempo che si è ambientata: «Da un mese abito ad Avegno. Gli ultimi tre anni li ho vissuti a Gordevio, dopo essere passata da Gordola e Cavergno. Mi trovo benissimo in valle – dice con l‘affetto e il trasporto dei locali –. Qui ho incontrato molte persone che mi hanno aiutata, come ad esempio una maestra per bambini che mi ha insegnato l'italiano e un gruppo di mamme che mi ha sostenuta quando è nato mio figlio. Non sapevo bene come crescerlo perché qui è molto diverso rispetto al mio Paese, alla fine però con lui andavo dappertutto e anche questo mi ha aiutato a conoscere la lingua e la cultura del posto». E a proposito d'infanzia, occuparsi di un bambino piccolo in questo momento è particolarmente impegnativo, testimonia Hiwet: «Durante il lockdown in primavera ho fatto parecchia fatica, alcuni giorni il mio piccolo voleva uscire dalla finestra perché vedeva i vicini che giocavano fuori. Prima andavamo sempre al parco giochi, c’era molta gente con cui stare, adesso invece non si vede quasi più nessuno e noi andiamo a guardare le mucche e le galline».

Prospettive sul futuro

Nonostante la pandemia e le limitazioni, la nostra interlocutrice si è comunque data parecchio da fare continuando a seguire un corso che le ha permesso, qualche settimana fa, di ottenere un certificato di collaboratrice sanitaria (ne avevamo dato notizia qui). «Finora non ho mai lavorato, ma mi piacerebbe iniziare, anche se in questo momento non è facile, con il bimbo che va all'asilo solo per poche ore e non avendo il sostegno di una famiglia. Intanto sono in assistenza, l'aiuto che mi dà il Cantone mi permette di pagare l'affitto e il resto delle spese; per me è una grandissima fortuna. Conosco gente dell'Eritrea con un lavoro qua, ma che per via delle conseguenze del virus è stata licenziata o sta guadagnando meno di prima. Sarebbe bello – auspica infine facendo appello anche alle associazioni che lavorano con i migranti in cui è coinvolta – trovare un modo per tornare a vedersi anche solo attraverso uno schermo, magari con Zoom, per parlare tra di noi e stare vicino a chi è più debole e a chi si trova nel bisogno».


Associazioni, un punto di riferimento che si riposiziona

Sul territorio esistono varie associazioni con lo scopo di coinvolgere le persone con un passato migratorio di varia provenienza e che propongono preziosi momenti d'incontro, scambio e conoscenza. Tra queste vi è GeaMondo che, nonostante abbia ripreso l'appuntamento settimanale ‘Raccontarsi’ allo Spazio Elle di Locarno, volto a praticare la lingua informalmente, si è dovuta confrontare con una quasi totale diserzione degli abituali frequentatori. «Non si è praticamente più presentato nessuno – spiega la responsabile Victoria Grütter – e ci siamo ritrovati quasi sempre solo tra volontari. Ora ci stiamo interrogando sulla situazione perché questa tendenza all'isolamento ci preoccupa molto».

Il progetto Mappamondo, promosso dalla Fondazione Elisa, una volta riaperte le scuole ha ripreso con il consolidato appuntamento del mercoledì a Minusio per bambini di famiglie rifugiate o richiedenti l'asilo. «Dal 2015 organizziamo questi pomeriggi per aiutare i bambini nei compiti – spiega l'assistente sociale Sandra Simonovic, tra le promotrici dell’iniziativa –. Fino a marzo facevamo anche varie attività con i fratellini a cui partecipavano sempre molte mamme. Erano importanti momenti di aggregazione grazie ai quali avevamo anche la possibilità d'intercettare e capire i problemi e i bisogni su cui intervenire. A causa della pandemia però abbiamo dovuto ridurre l'offerta unicamente per i compiti. Perciò anche noi, pur rimanendo a disposizione, incontriamo molte meno persone». La volontà di aiutare non è dunque venuta meno e le due associazioni, come altre attive nel Locarnese, sono ora diventate un punto di riferimento particolarmente apprezzato nei gruppi WhatsApp, all'interno dei quali si premurano d'inviare ai partecipanti informazioni aggiornate sul virus e sulle misure sanitarie in vigore nelle diverse lingue.

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