Locarnese

Quanto possono essere credibili due donne con gravi turbe psichiche?

La domanda è al centro del processo per atti sessuali in corso a Lugano. L’accusa chiede per un infermiere 2 anni e 9 mesi, la difesa la piena assoluzione.

(TiPress)
28 maggio 2019
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Quanto possono essere credibili due donne affette da gravi turbe psichiche? Quanto seriamente devono essere prese in considerazione le loro accuse di molestie sessuali subite in clinica psichiatrica, in un reparto protetto che si contraddistingue per la sofferenza psicologica di chi ne fa capo, dove vengono convogliati i casi suicidali, i casi limite, e dove la pressione è altissima sia per i pazienti, sia per il personale curante?
Sono queste le domande cui la Corte delle Assise criminali di Locarno dovrà rispondere prima di giudicare l’imputato finito alla sbarra oggi a Lugano: un 48enne infermiere che in quel reparto protetto, nell’unica clinica psichiatrica rimasta nel Locarnese – la Santa Croce di Orselina –, lavorò dal 2013 al 2015, prima di venire sospeso dalle autorità cantonali e dalla clinica stessa.
La sua innocenza o la sua colpevolezza – il carcere o la libertà – si giocano in questo caso sulle dichiarazioni rese in fase di istruttoria da una donna con un disturbo schizoaffettivo, «provocatoria, disinibita, che confonde realtà e fantasia ed è vittima di impulsi incontrollabili, fino a diventare incapace di discernimento», come l’aveva giudicata uno psichiatra. Una donna che in quel periodo millantava rapporti sessuali (orali o completi) con pazienti, personale curante e parenti in visita. Da queste stesse dichiarazioni era poi emerso un altro caso, riguardante una seconda paziente del reparto protetto; una donna sì molto diversa dalla prima per atteggiamenti ed educazione, ma ugualmente fortemente condizionata da un disturbo affettivo bipolare con fasi maniacali, i cui presunti abusi erano emersi casualmente, facendo partire un’inchiesta d’ufficio.
Come da manuale, in aula le parti hanno dato vita alla contrapposizione fra l’imputato infermiere meticoloso e preciso, misurato negli atteggiamento, solo a tratti leggermente ansioso, e quello approfittatore, subdolo, pronto a sfruttare le debolezze altrui per soddisfare i propri impulsi. L’accusa, sostenuta dalla pp Pamela Pedretti e dall’avvocato della prima paziente, Sandra Xavier, non ha avuto dubbi nel concedere totale credibilità alle vittime, che erano sì in sofferenza, ma perfettamente in grado di circostanziare eventi realmente accaduti. La magistrata ha messo l’accento sulle «dichiarazioni spontanee» rese dalla donna «dopo riflessione», quando, stando meglio rispetto all’epoca dei fatti, «si era resa conto che nel reparto protetto era successo qualcosa che non doveva succedere». Su queste basi, Pedretti ha chiesto una pena di 2 anni e 9 mesi di detenzione, di cui 6 mesi da espiare e il resto sospeso per un periodo di prova di due anni. Di avviso completamente diverso il difensore dell’infermiere, avvocato Marco Cocchi, che ha chiesto l’assoluzione piena secondo il principio “in dubio pro reo”. Cocchi ha ricordato il clima estremamente difficile nel reparto protetto e le casistiche in esso ospitate. Del suo assistito – accompagnato in aula dalla moglie – il legale ha ribadito la totale estraneità ai fatti, sottolineandone «la posizione fissa e coerente». E rispondendo alla domanda sul perché le accusatrici avrebbero mentito, ha chiosato: «La vera risposta è da cercare nella loro malattia». La sentenza della Corte – presieduta dalla giudice Manuela Frequin Taminelli e completata da Renata Loss Campana e Luca Zorzi – è attesa lunedì prossimo dalle 8.30.

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