Bellinzonese

‘Hanno dato il massimo ma sono stati travolti da una tempesta’

La difesa dei vertici della casa anziani di Sementina chiede l’assoluzione contestando anche le direttive di Merlani. Morisoli: ‘Fatto il possibile’

Gli avvocati Edy Salmina (a sinistra) e Mario Postizzi
(Ti-Press)
25 novembre 2022
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Non hanno dubbi che, senza opporsi alle regole e tantomeno intenzionalmente, gli imputati abbiano fatto tutto quanto fosse ragionevolmente nelle loro corde per preservare la salute degli ospiti e allo stesso tempo rendere un po’ meno grigie le giornate di chi in quelle settimane di solitudine viveva nell’angoscia e non aveva la possibilità di vedere i parenti. Ritengono inoltre che a livello giuridico le raccomandazioni e le direttive del medico cantonale non possano, se non rispettate, configurare un’infrazione (e quindi nemmeno reato) ritenuto che secondo la legge doveva essere il Consiglio di Stato a emanarle. Si può riassumere così la posizione degli avvocati difensori dei vertici della casa anziani di Sementina, da mercoledì a processo con l’accusa di non aver gestito adeguatamente la situazione durante la prima ondata pandemica, quando nel ricovero di proprietà della Città di Bellinzona, tra marzo e aprile 2020, 39 ospiti su 80 sono risultati positivi e 22 sono deceduti. Al termine dei loro interventi Luigi Mattei, patrocinatore del direttore amministrativo del Settore anziani comunale Silvano Morisoli, Mario Postizzi (legale della direttrice sanitaria) e Edy Salmina (difensore dell’allora capocure) hanno tutti e tre chiesto il proscioglimento dei loro assisti dal reato di contravvenzione alla Legge federale sulla lotta contro le malattie trasmissibili dell’essere umano. Giovedì, ricordiamo, l’accusa rappresentata dalla procuratrice pubblica Pamela Pedretti e dal procuratore generale Andrea Pagani si è invece battuta per la conferma dei decreti d’accusa (impugnati lo scorso maggio dagli imputati) che prevedono multe rispettivamente di 6’000 franchi per Morisoli, 8’000 per la direttrice sanitaria e 4’000 per la ex capocure. La sentenza della Pretura penale presieduta dalla giudice Orsetta Bernasconi Matti è attesa nel corso delle prossime settimane.

‘Mi chiedo cosa qui a fare’

«Mi chiedo cosa siamo qui a fare, con addirittura due procuratori pubblici, tre giorni di processo, per parlare di un reato di contravvenzione. Ma la ragione di questa disproporzione è emersa giovedì, quando durante la sua requisitoria la procuratrice pubblica Pedretti ha sintetizzato quello che lei ritiene essere il nocciolo della questione, ovvero che gli imputati hanno fatto di testa loro nella gestione del covid e questo ha comportato una strage. Un’affermazione che non possiamo che respingere, visto che in sede d’inchiesta è caduto il reato di omicidio colposo inizialmente prospettato ritenuto che non si può accertare una correlazione diretta tra ciò che si rimprovera agli imputati e nemmeno uno dei decessi». Così l’avvocato Mattei durante il suo intervento, al quale si è associato il collega Salmina: «Non mi risulta che in Svizzera siano stati aperti procedenti penali per casi simili. Eppure, a livello nazionale, circa la metà dei decessi per covid sono avvenuti nelle case anziani. Durante la seconda andata, nel cantone Basilea Campagna più del 90% dei decessi sono avvenuti nelle case anziani, ma anche qui non risultano indagini. E nemmeno per i 44 casi positivi su 115 ospiti registrati nelle strutture per anziani di Maggia e Castel San Pietro durante la prima ondata». Salmina non si capacita dunque «dell’unicità» di questo processo, «a fronte dell’omogeneità della diffusione e della letalità del covid» nelle case di riposo. Ancora Mattei: «Rilevo che nella prima ondata, in due delle altre tre strutture della Città di Bellinzona non c’è stato nemmeno un ospite positivo. E non si può certo parlare di fortuna, ma di una gestione attenta nella direzione di evitare per quanto possibile che il virus entrasse nelle strutture». Il 6 marzo 2020, ha proseguito Mattei, a Sementina è stato costituito un apposito gruppo di approfondimento che si riuniva tutte le mattine per valutare la situazione. «Come facciamo dunque a pensare che gli imputati volevano andare contro la volontà del medico cantonale? A differenza di quanto sostiene l’accusa, nessuno di loro ha mai pensato di agire contro qualcosa, ma semmai a favore. A favore dei propri ospiti».

‘Era un caso da diritto amministrativo’

Il primo a prendere la parola durante il terzo giorno di processo è stato l’avvocato Postizzi. «Cosa potevamo ragionevolmente aspettarci di più da queste persone? – ha esordito –. Considerato il carico di lavoro elevatissimo, la sottodotazione del personale, la mancanza di esperienza e le pochissime conoscenze scientifiche di allora sul tema covid, la prospettiva penale doveva essere esclusa», ha chiosato, parlando di una «deflagrazione giuridica dell’inchiesta che ha trascurato quello che concretamente va applicato nell’ambito penale». Per l’avvocato è dunque un caso del quale doveva occuparsi il diritto amministrativo. Portando l’attenzione sull’impostazione dell’inchiesta da parte della Procura, Postizzi ha definito «imbarazzante» il fatto che nei decreti d’accusa si evidenzino i decessi: «Bisogna sì giudicare se gli imputati hanno violato le disposizioni, ma le conseguenze non fanno parte del discorso che dobbiamo fare in questa sede».

‘Non consideriamo valide le direttive di Merlani’

Dopo l’antipasto fornito giovedì dal collega Selmina, Postizzi è tornato sul tema delle competenze in materia di provvedimenti anticovid del medico cantonale Giorgio Merlani. «Le sue decisioni non sono state ratificate. E nonostante la situazione d’emergenza non c’era possibilità di deroga da parte del Consiglio di Stato, che ha quindi abdicato il suo potere. È anticostituzionale anche il fatto che le direttive non avevano un periodo di validità». In soldoni, secondo la difesa, le raccomandazioni allora emanate dal medico cantonale non possono fondare, se non rispettate, una violazione della Legge sulle epidemie, poiché non si tratterebbe di provvedimenti emanati dall’autorità competente, il governo cantonale.

‘97 documenti in due mesi’

«Non si poteva pretendere l’impossibile», ha ripreso l’avvocato Mattei prima di elencare quelli che ritiene essere alcuni punti che avrebbero complicato le cose: il fatto che la struttura di Sementina abbia spazi già di per sé stretti, che la forma in verticale abbia obbligato i collaboratori a lavorare su più piani e che tutti i letti fossero occupati; la sottodotazione del personale data dalle numerose assenze per positività o sintomi sospetti; il continuo mutamento di raccomandazioni e direttive («in due mesi Adicasi e medico cantonale hanno prodotto in totale 97 documenti, alcuni anche di trenta pagine»). Capitolo tamponi, che secondo l’accusa non sono stati eseguiti in maniera tempestiva: «Il 16 marzo il medico cantonale riferisce che la disponibilità di materiale è ridotta e che i test sono da riservare ai casi più gravi – ha evidenziato Mattei –. I tamponi, dunque, c’erano ma dovevano essere usati con parsimonia. E qui si pone il problema degli ospiti potenzialmente asintomatici».

‘Una volta entrato era impossibile contenerlo’

«Se il coronavirus entrava nelle case anziani – ha ripreso l’avvocato Mattei – era ben difficile da arginare. E questo si è confermato anche durante la seconda ondata quando, nonostante i test a tappetto, in Ticino abbiamo avuto più morti della prima, anche se va dato atto che non c’era più il divieto di visita dei parenti». La difesa ne è convinta: «Gli imputati hanno tentato di evitare l’entrata e la propagazione del virus, chiudendo di loro iniziativa la sala da pranzo al piano terra e segregando gli ospiti al piano. Misure di cautela prese di propria iniziativa».

‘Nessuna indicazione sulla distanza nel decreto d’accusa’

Oltre a non aver isolato e testato gli ospiti in maniera tempestiva, l’accusa imputa agli imputati il fatto che "dal 18 al 24 marzo 2020 hanno continuato a consumare i pasti nella sala comune al pianterreno nonostante dal 18 marzo il virus avesse contagiato i primi collaboratori e ospiti che frequentavano questi spazi". La difesa contesta il mancato mantenimento delle distanze durante i pranzi in comune e le attività d’animazione per singoli piani (organizzati incontri di lettura, tombole, atelier creativi, passeggiate nel parco). «Nel decreto d’accusa si parla solo del non rispetto di un’adeguata distanza di sicurezza, senza indicare quanto questa doveva essere, aspetto che d’altronde non veniva chiarito dalle direttive emanate fino a quel momento. Quando si volevano i due metri è stato specificato, ma questo avviene solo alla fine di maggio», ha puntualizzato Mattei. Inoltre, ha ripreso l’avvocato, la direttiva del 9 marzo del medico cantonale vietava le attività socializzanti ma non specificava il divieto dell’animazione, «che in piccoli gruppi è stata proposta anche in altre case anziani ticinesi».

Doveri di vigilanza del direttore: ‘Ma cosa pretendiamo?’

Si è poi passati alle singole responsabilità, cominciando da Morisoli. «Nei suoi confronti si parla di condotte omissive, ma non trovo traccia di ciò che avrebbe dovuto fare di più. Doveri di vigilanza? Ma cosa pretendiamo? Che tutti i giorni verificasse la modalità delle attività, il tipo di cure e l’accoglienza alberghiera? È evidente – ha proseguito Mattei – che era una vigilanza fondata sul principio dell’affidamento, perché solo questo è il possibile livello di vigilanza per un direttore amministrativo a capo di quattro case per anziani comunali e 350 dipendenti». «È stata una tempesta perfetta dentro la quale c’era la mia cliente, arrivata a lavorare più di 11 ore al giorno», ha detto Salmina sulla posizione della capocure, precisando come il suo compito di applicare le direttiva sia stato reso ancora più complicato dal fatto che «quella di Sementina è una casa anziani grande in rapporto agli standard ticinesi, con tante diverse tipologie di ospiti e una grandissima concentrazione di utenti con patologie pregresse. Durante quel periodo sono aumentate progressivamente le necessità di accudimento degli ospiti ed è invece diminuita la disponibilità dei medici di famiglia visto che dal 16 marzo non potevano più entrare nella struttura se non per casi gravi. Necessità dunque che non corrispondevano alla forza degli effettivi». «Il suo carico di lavoro è esploso», ha detto Postizzi in merito alla posizione della direttrice sanitaria. «Ha dato il massimo delle sue capacità operative nel momento dell’emergenza. Ancora oggi non si capisce quali siano le sue state le sue mancanze».

‘Fatto tutto quanto possibile’

In attesa della sentenza, il sipario sul dibattimento è calato con le ultime parole degli imputati. «Ancora una volta vorrei manifestare vicinanza alle famiglie che hanno perso i loro cari e che hanno visto rivivere quei dolorosi momenti con le nostre testimonianze – ha esordito il direttore Morisoli –. Voglio anche ringraziare il personale per la professionalità e la resilienza dimostrata in quel difficile periodo. Ribadisco che le direttive e le raccomandazioni venivano condivise al nostro interno e sono state applicate fin dall’inizio. A volte queste necessitavano di essere ulteriormente specificate, e quindi noi stessi abbiamo chiesto in più di un’occasione come interpretarle e come poterle applicare al meglio. Ritengo che abbiamo fatto tutto quanto necessario e possibile per evitare che il virus entrasse nella struttura».

«Condivido quanto detto dal direttore e aggiungo che, dal momento che ormai sono in pensione, se oggi sono in quest’aula e non ho accettato di pagare la multa prevista dal decreto d’accusa è perché, dopo trent’anni di lavoro in casa anziani, non mi riconosco né professionalmente né umanamente nelle accuse – ha detto la capocure –. Dai decreti emerge che io mi sarei opposta, intenzionalmente, trascurando i residenti. Non è assolutamente cosi. Anzi. Quando è esploso il covid, io e il resto del personale abbiamo anteposto i residenti alla nostra vita privata. Ho visto morire molti di loro, ho sofferto e soffro tuttora. Tutti abbiamo fatto il possibile in una situazione così drammatica. Purtroppo con un grande sentimento di impotenza».

Infine la direttrice sanitaria, che ha pure espresso il proprio dolore: «Ho cercato di fare il meglio, per quanto era nella mie possibilità. Essere medico vuol dire curare, e io l’ho fatto. In quel periodo non esistevano i vaccini che oggi portano benefici: il mio curare era prendermi a carico i sintomi dei pazienti per cercare di farli stare bene, in un percorso di benevolenza ma sicuramente non di maleficenza».

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