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Gli Stati Uniti riscoprono le fabbriche, l’Europa sta a guardare

Oltre Atlantico riaprono impianti in precedenza delocalizzati all’estero. Una reindustrializzazione per molti versi inattuabile nel vecchio continente.

In sintesi:
  • Ottocentomila nuovi impieghi ‘di ritorno’ negli Usa negli ultimi due anni
  • L’Europa può temere un effetto ‘impoverimento’ del suo parco industriale.
Effetto reindustrializzazione
(Keystone)
8 maggio 2023
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Dove sta il nuovo Far West mondiale della reindustrializzazione, dove la Nuova Frontiera del “Back in the factory business”, cioè della rivincita e del ritorno dei tradizionali mestieri di fabbrica, prosciugati nel recente passato? Stanno sempre là, negli Stati Uniti. In quell’America che nell’ultimo biennio si è riportata a casa ottocentomila posti di lavoro, riaprendo impianti che negli ultimi due decenni erano stati delocalizzati all’estero, falcidiando l’occupazione nazionale, dai 6 ai 10 milioni di posti di lavoro persi.

Ottocentomila nuovi impieghi “di ritorno” non sono tantissimi per un mercato del lavoro statunitense che soltanto in marzo ha registrato 236’000 nuove assunzioni. Ma il segnale è chiaro, e sembra destinato a svilupparsi. Con non celate preoccupazioni soprattutto in un’Europa che, ostinandosi a perseguire una politica fiscale non espansiva, può temere un effetto “impoverimento” del suo parco industriale.

Sono due le rampe di rilancio dell’industria manifatturiera americana. Esogena, cioè esterna, la prima. Emergenza pandemica e guerra ucraina hanno segnalato l’eccessiva dipendenza dell’economia occidentale da fornitori lontani, asiatici in particolare, per produzioni che indeboliscono la sicurezza di nazioni e cittadini: prodotti energetici, semiconduttori, medicinali, tecnologie per la transizione ecologica. Una presa d’atto che non bloccherà del tutto il processo di mondializzazione – per i nostri consumatori esploderebbe il prezzo di troppi prodotti –, ma che certamente determinerà una forte correzione del sistema, per esempio attraverso la creazione di aree sistemiche più ridotte e più omogenee.

Ma è soprattutto la seconda rampa di lancio (endogena, quindi interna) a promuovere la reindustrializzazione statunitense e ad attrarre anche grandi investimenti esteri. L’“Inflation Reduction Act” messo in campo da Biden, in totale 650 miliardi di aiuti statali per le tecnologie sostenibili nonché per ricerca e innovazione, cristallizza l’aiuto dello Stato all’economia privata. E garantisce straordinari vantaggi di concorrenza internazionale al ribasso. Tanto più che, nel sistema Usa, i vari Stati hanno ampia autonomia di politica fiscale. Un esempio: la Pennsylvania, ex feudo siderurgico, ha abbassato le imposte locali sulle società dal 9,9% all’8,99 e pianifica di scendere al 4,99 entro i prossimi otto anni.

E se la mancanza di manodopera è un problema, si può ricorrere sia a flussi migratori parzialmente riaperti dalla presidenza democratica o, addirittura, come nell’Indiana, puntare sulla formazione e sul reinserimento dei detenuti (pagati in carcere 1,28 dollari… all’ora, lavorando anche per il Pentagono) una volta usciti dai penitenziari. Non sorprende dunque che il caso più clamoroso, come segnala un’inchiesta di Le Monde, sia quello di una “delocalizzazione al contrario”: che vede l’industria automobilistica Vinfast, vietnamita, investire 4 miliardi di dollari nella Carolina del Nord per una fabbrica e oltre settemila impieghi.

Modelli per molti aspetti, e fortunatamente, inapplicabili al di qua dell’Atlantico. In un’Europa, tuttavia, dove gli investimenti pubblici produttivi in questa cruciale fase di transizione rimangono per troppi governanti un insano tabù, distillato con pervicacia e continuamente strumentalizzato da una destra che si ostina a paragonare lo Stato a uno sparagnino ‘buon padre di famiglia’. Anche in Svizzera. E ancor più in Ticino.

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