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Dai Zanétt al Genée: viaggio nelle tradizioni sottocenerine

Molte sono scomparse, altre si sono rinnovate come quelle di Arogno e Rancate. Tutte sono importanti come testimonianza del passato, per il futuro

Il famoso carro con i Zanétt e i loro amici (Archivio Arogno)

Molte sono scomparse, altre si sono rinnovate come quelle di Arogno e Rancate. Tutte sono importanti come testimonianza del passato, per il futuro

Ti-PressSan Provino è candidato per entrare nella lista dei beni immateriali dell’Unesco

I Zanétt di Arogno e il Genée di Rancate sono tra le poche in vita. Decine di altre tradizioni legate alla fine dell’inverno sono scomparse, di molte non ci si ricorda neanche più. Eppure, in alcune zone del cantone sembrerebbe esserci una timida rinascita. A riprova di questa tendenza, e di riflesso di una maggiore consapevolezza sull’importanza delle usanze, è di poche settimane fa la notizia che è stato chiesto l’inserimento nella lista dei beni immateriali dell’Unesco dell’imminente sagra di San Provino ad Agno e di quella di San Martino a Mendrisio.

Quello dal quale stiamo uscendo è un periodo ricco di riti di passaggio. Ve ne presentiamo due, uno nel Luganese e uno nel Mendrisiotto, che hanno saputo rimanere al passo coi tempi. Seguono, in veloce carrellata, altre significative tradizioni che purtroppo si sono estinte nel corso degli anni.

AROGNO

Zanétt: dai giri per il paese ai giri di ballo

Ad Arogno vi è una salda tradizione che si è tramandata di generazione in generazione e che scalda gli animi durante il freddo invernale ogni anno da almeno due secoli: i Zanétt. Una tradizione, come lo stesso termine, probabilmente importata da Venezia. Zanetti infatti deriverebbe dal veneto ‘Zuaneti’, ovvero giovinetti, che sono proprio la linfa vitale di questa ricorrenza. Sì, perché i protagonisti di questa festa carnascialesca sono proprio i giovani, tra i 9 e i 15 anni, che dopo l’Epifania eleggono, tra compagni e amici, tre giovinetti del paese responsabili del Carnevale giovanile che si tiene il giovedì grasso, in cui si pranza tutti insieme e alla sera si balla mascherati al Teatro Sociale. Il tratto caratteristico di questa usanza è che i giovani del paese, guidati dai tre Zanétt prescelti, un mese prima del martedì grasso, si riuniscono due volte a settimana per percorrere le vie del comune facendo baccano e suonando i campanelli delle case per chiedere dolci, caramelle e offerte.

Zan, Cassée e Portasálam

Ciascuno dei tre ragazzi ‘eletti’ ha un ruolo ben preciso. Lo Zan, che indossa un mantello rosso, rappresenta il re e la massima autorità durante i raduni. Il Cassée (il cassiere) con un mantello giallo è responsabile delle finanze e infine il Portasálam, addetto alle vivande, con il suo mantello blu che un tempo aveva il compito di procurare luganighe e cotechini destinati ad arricchire la Pasquiröla, ovvero il pranzo del Carnevale. Ma il mantello non è l’unico indumento a distinguerli, come simbolo di comando tutti e tre indossano una ciuchinèra, ovvero una fascia di cuoio alla quale sono fissati dei sonagli di ottone di forma sferica. Simboli che vengono passati di mano in mano da generazioni.

Una volta scelte le tre guide, i ragazzi si avventurano per le vie del comune in cerca di doni. «All’epoca, circa fino agli anni Sessanta, i giovani autofinanziavano il loro Carnevale – ci spiega Roberta Bianchi, responsabile dei Zanétt dal 2008 al 2020 –. Oggi questo non sarebbe più fattibile, dunque, insieme al gruppo organizzativo, abbiamo deciso di dar loro dei simbolici biglietti della lotteria che si distribuiscono tra loro e che devono vendere entro il giovedì grasso». Un contributo simbolico, ma che devono riuscire a racimolare. Un altro compito dei tre ‘re’ per responsabilizzarsi ancora di più «è quello di presentarsi, prima dell’inizio dei giri serali per il paese, ai municipali di Arogno, chiedendo loro il permesso per fare il loro Carnevale».

I tour per il paese che precedono il giovedì grasso iniziano alle 19 in piazza Valécc con tanto di campanacci e latte vuote per far rumore. «È un modo per scacciare l’inverno e il freddo e anche per dare il benvenuto al Carnevale». In quei raduni «i ragazzi, che non sono accompagnati, hanno il loro momento in cui si divertono e imparano a stare in gruppo». Senza dimenticare che tornano a casa con un bel bottino di dolciumi...

Archivio ArognoIl ballo dei Zanétt al Teatro Sociale

Tutti in maschera per il ballo finale

Arriva poi il momento dei festeggiamenti veri e propri in cui i Zanétt si trasformano in supereroi, creature magiche, animali e tanti altri travestimenti: il giovedì grasso. Quel giorno, in cui i ragazzi vengono esentati da scuola con l’avallo delle autorità comunali e cantonali, ci si ritrova in mattinata in piazza Granda, dove c’è il Teatro – che rappresenta l’inizio e la fine del Carnevale giovanile – e si inizia il corteo che si muoverà per tutto Arogno. «Solitamente ci sono due carri – ci racconta Bianchi – uno per la bandella, e uno su cui salgono i protagonisti con le loro damigelle e gli amici più intimi». Sì, perché accanto alla figura dei tre re, ci sono anche le loro compagne, dalle quali saranno accompagnati poi al ballo finale. Ma prima di concludere il corteo, c’è un’ultima tappa. «Saranno almeno 35 anni che l’ultima sosta è alla casa di riposo Tusculum, un gesto nei confronti degli anziani che vedono allegria e ascoltano la bandella suonare. È un momento intergenerazionale che unisce il paese». Dopo il Tusculum tutti i ragazzi si dirigono al Teatro per il pranzo, la cosiddetta Pasquiröla. Da diversi anni il comitato organizzativo ha deciso di dedicare il pomeriggio ai più piccini, con il veglione pomeridiano.

Alla sera però i protagonisti tornano a essere i ragazzi con il tanto atteso ballo al Teatro Sociale. A un certo punto della serata viene annunciato il ballo dei tre protagonisti: prima il Portasalám, poi il Cassée e infine lo Zan. La peculiarità di questa tradizione è che una volta concluse le danze, i tre con le loro damigelle vengono sollevati, tirati su nella galleria e portati in una stanza in cui ad attenderli vi è una torta tutta per loro. La festa si conclude poi alle 23, perché il giorno seguente è l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Carnevale.

Archivio ArognoLa figura del Re Becco giunta alla fine degli anni Sessanta

Re Becco e il comitato organizzativo

Verso la fine degli anni Sessanta, con l’istituzione di un vero e proprio Comitato dei festeggiamenti, il Carnevale arognese ricevette un nuovo impulso. In omaggio al vessillo comunale, che rappresenta la testa di un caprone, fu creata la figura di sua maestà re Becco, sovrano del paese per tutto il periodo carnascialesco. Da quel momento i Zanétt poterono contare sul sostegno di un comitato organizzativo che si è incaricato di portare avanti e adattare ai tempi questa antica tradizione di paese.

RANCATE

Genée: un pupazzo che si uccide ma sopravvive

Anche nel Mendrisiotto un’usanza è sopravvissuta nel tempo. Una tradizione volta anch’essa a scacciare l’inverno e più precisamente gennaio. In passato l’ultimo giorno di quel mese, bambini e ragazzi percorrevano le vie del proprio paese facendo baccano con latte vuote, campanacci, corni e canti. Oggi quest’usanza è circoscritta al Locarnese e alla Leventina, fatta eccezione però di Rancate, in cui questa tradizione è sopravvissuta e si è rigenerata, sebbene in forma diversa. Lì, per scacciare gennaio viene impiccato un fantoccio, dei più svariati materiali, a una finestra che dà sulla strada che attraversa il nucleo del paese e veniva bruciato dai ragazzi delle scuole.

Ti-PressIl pupazzo Genée appeso per le vie di Rancate

Frasi satiriche, un ibrido tra dialetto e italiano

Questo pupazzo prende il nome di Genée. Oggi bruciare il pupazzo non è più permesso e dunque la tradizione ha dovuto di conseguenza trasformarsi. Alla base di questo cambiamento risiede il fatto che il Genée viene costruito da qualcuno che nessuno conosce, il creatore rimane sconosciuto, e dunque docenti, polizia e pompieri, non conoscendo i materiali con cui è stato costruito non vogliono che si corrano rischi.

Il fantoccio dalle origini misteriose compare ogni anno con un cartellone sul quale c’è scritta una frase satirica (un ibrido tra dialetto e italiano) riguardo a un aspetto della vita di Rancate. ‘Ul Genée al se tacaá sü perché a la sicüreza da via ai grott al ga pensa semprü sü’ si leggeva un anno, oppure ‘A furia da pensag sü par la növa piaza ul Genée al s’è tacaà sü’ un altro. Il Genée di Rancate, un superstite della tradizione di ‘bandir gennaio’ che oltre a ironizzare su aspetti della vita comune, scaccia con un gesto estremo il primo mese dell’anno.

Cacciar gennaio, chiamare l’erba

Rancate non è però l’unico luogo in cui è esistita l’usanza del ‘bandir gennaio’. Anche Morbio Inferiore, Pedrinate, Balerna, Chiasso, Stabio e Mendrisio – per citarne alcuni – invocavano la fine dell’inverno gridando ‘l’è fö genée’ nell’ultimo giorno di gennaio. Lo stesso si faceva anche nel Luganese, a Tesserete in cui però si cantava: ‘Fòra sginè, dènn fevrè, tütt i cáure i va da Brè e i galinn i polè’. Altre località hanno riti con significati simili ma con modalità differenti. A Sonvico si usava tagliare gli alberi giovani per il falò di Carnevale, e sono rimaste due denominazioni del luogo dove avveniva questo rito: ‘Ur Pian Carnevá’ e ‘ur Pian dra Camána’, entrambi indicanti lo spiazzo a monte del Laghétt dra Gána. A Curio, protagoniste di una tradizione estinta erano le conchiglie, usate come strumenti dai ragazzi durante la Settimana Santa. O ancora a Colla, dove si usava chiamare l’erba il primo di marzo. I giovani andavano in giro per il paese con campane e bestie chiamando la primavera, per far crescere l’erba dopo l’inverno. Usanze, dunque, che scandivano i cicli religiosi o della vita contadina.

L’APPROFONDIMENTO

‘Spesso hanno radici pre-cristiane e servivano a scandire i cicli della natura’

Uno scenario dinamico e variegato. Per fare il punto sulle tradizioni viventi a cavallo fra fine inverno e inizio primavera abbiamo interpellato Dafne Genasci, ricercatrice del Centro di dialettologia ed etnografia (Cde) di Bellinzona.

Le origini: come nascono queste tradizioni? Sono autoctone o importate? Che relazione hanno con il Cristianesimo?

Per molte tradizioni è difficile risalire alle loro origini, perché spesso non sono codificate e vengono trasmesse più che altro oralmente, di generazione in generazione. Inoltre, alle tradizioni antiche si sono sovrapposte tradizioni nuove, che non sempre hanno cancellato le precedenti ma le hanno integrate e modificate. Moltissime festività cristiane si sono innestate su quelle precristiane, appropriandosi di alcuni aspetti e modificandoli secondo le nuove esigenze. Un esempio classico è quello del Natale: è solo a partire dal IV secolo che il giorno natale di Gesù Cristo è stato fissato al 25 dicembre, ma in realtà già prima si festeggiava il solstizio d’inverno, il giorno più buio dell’anno che cade il 21 o il 22 dicembre, dopo il quale le giornate ricominciano ad allungarsi. Fu l’imperatore romano Costantino a far coincidere la festa della rinascita del sole dopo il solstizio (detta Sol Invictus) con quella della nascita di Cristo; il Natale cristiano venne quindi a sovrapporsi, e col tempo a sostituirsi, ai festeggiamenti pagani per il solstizio invernale. Tra l’altro alcune consuetudini natalizie sono sorprendentemente ‘recenti’, come quella dell’albero decorato, che da noi è stato importato dalla Svizzera tedesca solo nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento. Questo per fare capire come una festività o una tradizione possano essere complesse e come siano il risultato di una somma di elementi avvenuta nel corso dei secoli.

Qual è il significato, l’esigenza, di questo tipo di tradizioni? Perché si scacciava proprio gennaio e non, ad esempio, febbraio?

Le festività servono a scandire il tempo per tutta una comunità; da sempre e in tutte le culture, l’uomo scandisce il fluire ciclico e ripetitivo attraverso la ritualità. Al giorno d’oggi, immersi come siamo nella modernità, le festività sono per noi scollegate dai cicli della natura. Non coltiviamo il nostro cibo, ma lo compriamo: anche durante l’inverno possiamo comprare mirtilli, banane e manghi, per cui non riusciamo a realizzare quanto l’inverno e l’estate influiscano sui raccolti. I ritmi dei nostri antenati, e di conseguenza il loro calendario, erano invece interamente scanditi dai ritmi della natura, perché da questi dipendeva la loro sopravvivenza: quando iniziava a crescere l’erba in primavera, bisognava cominciare a portare le bestie al pascolo e a raccogliere il fieno in vista dell’inverno; quando maturava la segale in estate, bisognava mieterla; quando le castagne erano mature in autunno, bisognava raccoglierle. Il periodo fra gennaio e marzo coincideva con il passaggio dall’inverno, che era un periodo di riposo vegetativo e di letargo per gli animali (e quindi anche di attività ridotte per l’uomo, perché c’era poco da coltivare e poco da cacciare), alla primavera, caratterizzata invece dalla rinascita della natura. La tradizione di cacciare gennaio, e scacciare con esso anche l’inverno, serviva a congedare finalmente i mesi più bui e più improduttivi dell’anno e ad accogliere quelli più produttivi. Non casualmente, in molte festività o usanze del periodo fra gennaio e marzo, appare il motivo del falò (come nel caso del Genée di Rancate, che un tempo veniva bruciato dopo essere stato portato in processione per le vie del paese): il fuoco è un tipico simbolo di purificazione; brucia il ‘vecchio’ per far risorgere, dalle sue fertili ceneri, il ‘nuovo’.

Ti-PressSan Provino, una sagra intergenerazionale

Elemento superstizione. Che ruolo aveva? Si credeva che se il ‘rituale’ non veniva rispettato nel giusto modo, ci potessero essere delle ripercussioni di qualche tipo?

Sicuramente l’imprevedibilità e la violenza della natura, che come abbiamo visto erano decisive per la sopravvivenza o meno dei nostri antenati, facevano in modo che si desiderasse propiziarsi la benevolenza divina. Ora la etichettiamo come ‘superstizione’, con una sfumatura spregiativa, e la intendiamo come ignoranza che attribuisce al sovrannaturale gli avvenimenti spiegabili razionalmente; ma vi era semplicemente una minor conoscenza dei fenomeni naturali. Ancora oggi in realtà siamo superstiziosi e ricorriamo a ‘riti magici’ quando ci troviamo di fronte a ciò che non riusciamo a controllare: pensiamo anche solo al fatto di ‘pregare’ mentalmente (e lo fanno sia i credenti sia i non credenti) che un’operazione vada a buon fine, o che a un esame ci vengano fatte domande facili. A Chironico, la sera del 31 gennaio, dopo aver fatto il giro del paese suonando i campanacci per scacciare l’inverno, viene bruciato un piccolo falò, detto la cóvo d sgianéi ‘la coda di gennaio’; un tempo si diceva che s’u brusu migni le cóvo d sgianéi, u s fa migni gni fégn gni paia (ossia: se non brucia la coda (la fine) di gennaio, non si raccoglierà né fieno né paglia), intendendo che l’annata agricola sarebbe stata compromessa. Era una previsione che potremmo chiamare ‘superstiziosa’, analoga a quella che si fa ancora oggi a Zurigo, dove si dice che più in fretta brucerà il Böögg (il fantoccio che simboleggia l’inverno, come il Genée di Rancate) e più bella sarà l’estate.

Ci sarebbe in atto una sorta di ‘revival’. Conferma? In quali contesti? A cosa può essere dovuto?

Sembrerebbe che negli ultimi decenni ci sia in atto una sorta di revival di alcune tradizioni: il caso di Rancate è un tentativo recente di ripristinare l’usanza; a Locarno è invece già dagli anni Sessanta che è stato riattivato il ‘bandir gennaio’. Forse la motivazione è da cercare, come osserva l’antropologo Piercarlo Grimaldi, nel fatto che più il tempo moderno pervade la società contemporanea, costringendola in una rete ritmica artificiale, più l’uomo cerca di recuperare in qualche modo le proprie radici che affondano nel terreno della tradizione, nel tempo che più si avvicina alla natura. Come abbiamo detto, i riti e le feste tradizionali sintonizzano l’essere umano con il naturale scorrere delle stagioni, con il caldo e con il freddo, con la luce del giorno e il buio della notte. E forse, è qualcosa di cui abbiamo bisogno per riconnetterci a noi stessi nel nostro mondo digitale e frenetico.

Più il tempo passa, meno testimoni ci sono di queste tradizioni. Come fare per tramandarle e mantenerle vive? Come Cde, avete progetti da segnalare in quest’ambito?

Il Cde contribuisce al progetto svizzero "Tradizioni viventi in Svizzera", che ha allestito e si occupa di aggiornare periodicamente una lista delle usanze provenienti da tutte le regioni svizzere (www.tradizioni-viventi.ch); gli obiettivi sono sensibilizzare il grande pubblico sull’importanza della pratica e della trasmissione delle tradizioni, promuovere il riconoscimento dei loro portatori e creare una base per ulteriori iniziative e partenariati. Il Centro ha collaborato inoltre a un progetto simile che riunisce il patrimonio immateriale delle regioni alpine, chiamato "Intangible Search" (www.intangiblesearch.eu). Entrambi i progetti rendono più facilmente accessibili queste usanze e contribuiscono a diffonderne la conoscenza. Ma non c’è dubbio che, per tramandarle, la volontà della comunità sia il fattore principale.