laR+ IL COMMENTO

Soldi finti, pirati veri

Riflessioni sulle dinamiche che, negli ultimi anni, hanno portato al fallimento della squadra rossoblù

In sintesi:
  • Il fallimento del Fc Chiasso, per molti versi, era nell'aria da tempo
  • Da vent'anni a questa parte, le varie gestioni del club si sono sempre più allontanate dal tessuto cittadino
  • Il Chiasso è solo l'ultima di tante società sportive ticinesi giunte al fallimento

 

28 gennaio 2023
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Non siamo qui a piangere la scomparsa dell’Fc Chiasso. Al massimo, ne annunciamo i funerali. La sua morte, del resto, si era consumata già da un pezzo. Da molti anni dei rossoblù si sentiva parlare per le traversie societarie più che per gli exploit sportivi, divenuti rari come l’alborella. Da tempo, il club non rappresentava più un’emanazione diretta del territorio. Il susseguirsi di investitori, l’avvicendarsi di dirigenti e il sistematico stravolgimento delle rose – dove gli elementi locali sono andati scomparendo – hanno provocato un progressivo allontanamento da parte della gente, che non si riconosceva più in quell’accozzaglia di mercenari che era diventata la sua squadra del cuore. E, come in altre piazze cantonali – per colpa di manager spregiudicati (e alcuni perfino pregiudicati) – si è giunti al fallimento. Al pari di altre società, quella rossoblù era divenuta ormai terra di conquista per cordate aliene portatrici di denaro di dubbia provenienza o, ancor più spesso, soltanto millantato.

La morte sportiva è dunque toccata anche ai momò, gremio antichissimo e dal curriculum per nulla banale. A difendere i colori rossoblù – in campo e in panca – sono stati infatti autentici fuoriclasse. Parliamo di Adolfo Baloncieri, miglior attaccante italiano fra gli anni 20 e 30 o dei campioni del mondo Monzeglio, Foni, Altafini e Zambrotta. Ma anche di Luttrop, Michaelsen, Neumann e Milton. Senza dimenticare i talenti locali: il Tullio Grassi, il Puci Riva, il Cecc Chiesa e poi Bevilacqua, Bernaschina e Walter Pellegrini. Tutta gente che ha contribuito a tenere il club nella massima serie e addirittura a sfiorare il titolo nazionale, negli anni 50. Era un’epoca in cui, al contrario di quanto avvenuto in tempi recenti con gli spalti desolatamente vuoti, una tifoseria caldissima gremiva il Comacini – e poi il Comunale – al di là dell’immaginabile, e calciatori e dirigenti erano inscindibilmente legati al tessuto cittadino. Nei mille bar fra Brogeda e Boffalora, tutti parlavano dei rossoblù, e alle pareti trovavi foto, sciarpe, gagliardetti e maglie autografate dai giocatori. Ma poi, a metà degli anni 90, la sciagurata legge Bosman stravolse tutto, consentendo ai giocatori di muoversi liberamente e ai dirigenti di spostare denaro in ogni angolo del pianeta. Il calcio smise di essere gestito da presidenti generosi e appassionati, che non ci guadagnavano nulla e che, anzi, spesso ci rimettevano. I moderni amministratori usano il pallone come veicolo per l’arricchimento personale, operazione per nulla facile, specie se giochi d’azzardo e soprattutto se intendi farlo nel calcio svizzero, dove si vendono pochi biglietti e in cui pure dai diritti televisivi si ricavano cifre modeste. Ai dirigenti in cerca di fortuna, dunque, non resta che la selvaggia compravendita dei giocatori. Anche nel passato i pezzi più pregiati venivano ceduti, ma i proventi erano reinvestiti affinché il club mantenesse il proprio livello. Oggi invece la cresta finisce tutta in tasca ai faccendieri e la squadra si indebolisce e retrocede, diventando ancor meno appetibile per gli sponsor, innescando un circolo vizioso che, inevitabilmente, si conclude con la fuga prima dell’alba degli avventurieri. E, purtroppo, con la cancellazione.

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