laR+ L’intervista

Silvio Orlando, un Momò a Locarno

Sabato 3 e domenica 4 dicembre, l’attore porta in scena ‘La vita davanti a sé’ di Romain Gary, pièce in cui è Momò, bimbo arabo simbolo di convivenza

‘Io credo che sia sempre meglio ricevere migranti che emigrare, perché nel momento in cui non si ricevono migranti, automaticamente diventi migrante tu’
30 novembre 2022
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Dopo sedici anni è tornato a lavorare con Nanni Moretti ne ‘Il sol dell’avvenire’; la prima volta fu ‘Il caimano’ (2006), nei panni del regista di B-movie che voleva girare un film su Berlusconi, David di Donatello al migliore attore protagonista (all’attore, non a Berlusconi). Alla televisione italiana, qualche tempo fa, Silvio Orlando svelava una delle ansie del suo mestiere: quale faccia fare in tv quando si perde un premio? E quale quando si applaude chi ti ha battuto? Fresco di un altro David, quello per ‘Ariaferma’ (e nessuna faccia di cui preoccuparsi), sabato 3 e domenica 4 dicembre al Teatro di Locarno (rispettivamente alle 20.30 e alle 17) Silvio Orlando porta in scena ‘La vita davanti a sé’, pièce tratta dall’omonimo libro del francese Romain Gary. È la storia di Momò, bimbo arabo di dieci anni che vive nel quartiere multietnico di Belleville, nella pensione in cui l’ex prostituta ebrea Madame Rosa si occupa di crescere i figli delle ‘lucciole’ che, per legge, non possono tenere i bimbi. Storia di convivenza tra culture e religioni differenti, l’opera di Gary vanta anche l’adattamento per il cinema che ha fruttato il David di Donatello a Sofia Loren, Migliore attrice, e una canzone originale in odor di Oscar.

Ci sarà musica anche a Locarno, affidata all’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre. Riduzione e regia sono dello stesso Orlando, che aveva nove anni quando perse la madre, evento che può forse spiegare quanto quello del prossimo fine settimana sia per lui qualcosa di più di uno spettacolo.

Silvio Orlando, cosa l’ha spinta a scegliere questo testo?

Più che qualcosa di razionale, mi ha spinto un elemento di aderenza totale al concetto di base dello scritto, quello della ricerca disperata di amore, nonostante tutto, da parte di un ragazzino orfano, un autentico fantasma che si aggira per la strade di Parigi. Quella vicenda l’ho sentita mia, personale ancor prima che professionale e mi sono commosso. Le fragilità di questo ragazzino, Momò, sono le fragilità di tutti, al di là della sua condizione estrema.

È stato "come se stessi leggendo la mia biografia", ha detto del libro…

Per fortuna non ho avuto una vita così terribile, ma gli elementi sono molto forti, soprattutto la carenza dell’amore primario, quello della madre. Gli occhi della madre sono quelli attraverso i quali noi iniziamo a vedere il mondo.

Com’è, per lei sul palcoscenico, calarsi nei panni di un bambino?

Mi sento ancora troppo giovane per farlo (ride, ndr). Le fragilità dei bambini sono le stesse degli anziani. Sono abbastanza adulto ma non così anziano da poterlo interpretare al meglio.

Anche il flauto, che da giovane lei suonava nel Centro culturale giovanile di Napoli e che ora suona in scena, è autobiografico?

Il flauto è parte di una festa finale aperta a tutti, e io mi prendo una piccola soddisfazione. Da piccoli, quando gli altri ragazzi non ci facevano giocare a calcio, ci compravamo il pallone, così erano tutti costretti a giocare con noi. Qui io sono il capocomico e gli altri non possono rifiutarsi di suonare con me.

Parole sue: "Il teatro è il mio orto, il mio giardino. In tempi di magra è la mia zucchina, il mio pomodoro". In quale stato si trova oggi il suo orto?

Credo che esista un’opportunità storica potentissima rappresentata dal fattore umano in scena, qualcosa di unico, di non rintracciabile altrove. Mentre il cinema offre tanto, e così i surrogati casalinghi che somigliano al cinema, dando risposta all’esigenza d’immaginario, quell’unicità del teatro, il suo accadere in quel momento, in quel luogo, con quegli attori che portano in scena la propria vita, le proprie fatiche, è cosa straordinaria ancor più in un momento come questo, nel quale ci stanno chiudendo dentro i nostri salotti, seduti su divani sempre più comodi, davanti a televisori sempre più grandi.

Il cinema, stando a una sua dichiarazione, pare meno orto: "È un posto d’invidiosi"...

Davvero ho detto questo? (ride, ndr). È il mondo il regno dell’invidia, uno dei motori più importanti sul quale tutti si censurano, ma umanissimo, di stimolo a migliorarci. Si trasforma l’invidia in sfida per evitare di soffrire e basta, perché l’invidia fa soffrire. Nel cinema c’è molta competizione, legata anche a un elemento irrazionale, l’adesione del pubblico a un attore piuttosto che a un altro, cosa che va oltre la bravura. Il nostro mestiere è basato sull’immateriale e, come tale, può dissolversi da un momento all’altro. Il pubblico lo puoi anche perdere e non ritrovarlo più.

Il cinema, nel suo caso, è anche il potere di commuoversi: il suo trattenere a fatica le lacrime mentre riceveva il David per ‘Ariaferma’ ha una spiegazione particolare?

Non c’è nulla che commuova di più dell’autocommozione, i premi ne sono la fiera. Ci fanno pensare a tutto ciò che abbiamo rinunciato, alle nostre fatiche, a chi non ci ha mai capiti e finalmente lo ha fatto. Nel mio caso, in quel momento è contato anche l’elemento sorpresa, perché davvero non mi aspettavo di vincere. Mi sono passati davanti quarant’anni di carriera, è stato un momento di bilancio. L’irrazionalità di questo mestiere porta a cercare sempre qualcosa di oggettivo e i premi, per un instante, svolgono questa funzione. Sono una vacanza che ti concedi da te stesso, sono la coccarda con la quale ti premiavano a scuola. Ma mezz’ora dopo il trionfo sei di nuovo solo con le tue insicurezze, con le tue inadeguatezze.

Le chiedo tre definizioni per tre persone a lei care. Nanni Moretti.

Un maestro.

Paolo Sorrentino.

Il Maradona del cinema, così lo facciamo contento.

Maradona.

Diego è stato un bel problema per Napoli. Per qualche anno abbiamo pensato che fosse la normalità, e invece era un uomo precipitato sulla terra non si sa da quale pianeta. Ma sono due le persone che a Napoli ci hanno rovinato: Maradona e Totò, due geni talmente alti nei rispettivi campi che rifare quello che hanno fatto è come mettersi con un pennello in mano dopo Michelangelo e Raffaello.

Per finire. Gli abitanti del Mendrisiotto vengono chiamati momò, come il bimbo del suo spettacolo, un nome solo in bocca a popoli diversi. A me chiama un senso di uguaglianza, a lei?

Il problema di Momò è ciclicamente quello di sempre. I migranti ci sono, ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Sono una grandissima opportunità, anche se un’enorme fonte di ansia per chi li riceve. Io credo che sia sempre meglio ricevere migranti che emigrare, perché nel momento in cui non si ricevono migranti, automaticamente diventiamo migranti noi. Il problema è enorme, è la grande sfida di questi anni e di questo secolo. Le condizioni le conosciamo tutti: bisogna rimboccarsi le maniche, cancellando l’elemento della paranoia. Il teatro, nel suo piccolo, può descrivere le vite di questi individui, raccontarli per nome per cognome, e in qualche modo avvicinarceli, così da renderli fratelli.

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