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Russia, ‘il dopo Putin è già iniziato’

Per il giornalista e ricercatore Yurii Colombo – domani a Bellinzona – la guerra in Ucraina conferma il fallimento del presidente russo.

(Keystone)
25 ottobre 2022
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"Il progetto putiniano è sostanzialmente fallito e la guerra in Ucraina rappresenta solo il tentativo della classe dirigente russa di sfuggire alle sue responsabilità, alla sua corruzione e inefficienza, e alla stagnazione senza prospettive della sua economia". La mette giù dura Yurii Colombo, giornalista free-lance da Mosca, ricercatore, collaboratore Rsi, che studia la Russia dai tempi della Perestrojka e non può certo essere accusato di facili entusiasmi ‘atlantisti’. Lo fa nel suo recentissimo saggio il cui titolo è già un programma: ‘La Russia dopo Putin’ (Castelvecchi). Ma Colombo ha da poco pubblicato, sempre per Castelvecchi, anche un’edizione aggiornata del precedente ‘Svoboda. Ucraina fra Nato e Russia dall’indipendenza a oggi’ (per inciso: svoboda significa libertà, sia in russo che in ucraino). Visto che domani alle 20.30 sarà alla Casa del Popolo di Bellinzona, invitato dal Comitato contro la guerra in Ucraina, ne abbiamo approfittato per provare a capire dove stia andando il Cremlino.

Che si possa pensare a una Russia dopo Putin appare piuttosto logico, anche solo per questioni anagrafiche. Ma quando sarà quel dopo?

Non sarà un processo che si compie in poche ore o giorni. Il cammino verso il ‘dopo’ è molto lungo ed è iniziato già negli anni Dieci, quando la prospettiva russa di ritornare potenza tra le potenze – anzitutto grazie allo sviluppo economico – è sostanzialmente fallita. Questo ha avuto pesanti ripercussioni soprattutto nelle zone periferiche, come Urali e Siberia, in cui la crisi è diventata anche sociale. La risposta al problema è stata la creazione di un capro espiatorio: quell’occidente che impedirebbe alla Russia di emergere e cercherebbe di imporre in ogni modo i suoi valori e il suo stile di vita.

Nonostante la crisi colpisca soprattutto la periferia, è nelle grandi metropoli che si registrano i segni più evidenti di opposizione al regime. Chi sono i russi ‘che si battono per la libertà’, ai quali dedica il suo libro?

Anche ultimamente, la stragrande maggioranza delle persone che hanno deciso di abbandonare la Russia per sfuggire alla coscrizione proviene dalle grandi città e dai ceti sociali meno svantaggiati. D’altronde in Russia il 69% della popolazione non è mai stato all’estero, un russo su due non ha neppure il passaporto e non dispone degli strumenti materiali e culturali per andarsene. Già prima del conflitto la resistenza a Putin si concentrava nelle grandi città della Russia europea, laddove si aspira a un’integrazione con la stessa Europa.

Invece lei nota che "il russo medio ha smesso da tempo di sognare l’occidente". Cos’è successo?

Già durante la Perestrojka si iniziò a guardare all’ovest, che prometteva un superiore sviluppo economico, sociale e culturale. Negli ultimi trent’anni questo sogno è andato svanendo, proprio perché la Russia non è stata generalmente in grado di raggiungere tale sviluppo. Non è solo una questione economica: la sanità disastrata, le pensioni insufficienti, le difficoltà sociali hanno determinato un senso di rinuncia, un ripiegamento strumentalizzato dal regime di Putin. Anche perché se l’occidente non posso raggiungerlo, tenderò a credere a chi mi dice che è il mio nemico.

Dal trauma degli anni Novanta a oggi, quali sono state le responsabilità dell’occidente in questa deriva?

Sicuramente le privatizzazioni in Russia non portarono a una ridistribuzione delle risorse controllate dalla nomenklatura sovietica, quanto piuttosto a una loro concentrazione ancora maggiore nelle mani di pochi oligarchi: come dimostra Thomas Piketty, il più autorevole studioso delle disuguaglianze, la forbice tra l’1% di popolazione più ricco e il 10% più povero è tornata al livello del 1905, quando scoppiò la prima delle rivoluzioni russe. Nel frattempo l’espansione a est di Nato e Unione europea è stata mal digerita, anche se questo ovviamente non giustifica l’attuale invasione, che anzi azzera ogni tipo di giustificazione e ragione.

Spesso si indica il discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, nel 2007, come spartiacque tra una relazione relativamente distesa di Mosca con Washington e Bruxelles e i loro futuri conflitti. Fu in quell’occasione che sarebbe divenuto esplicito lo scontento verso la Nato e gli equilibri internazionali a trazione occidentale. Ma ha davvero senso parlare di un prima e un dopo?

Mi pare che la definizione di una frattura così netta sia un esercizio ex post. È vero però che il discorso di Monaco esplicita un allontanamento in atto dal processo di integrazione della Russia nella Nato e in Europa. All’epoca, forse Putin sperava di poter ottenere ascolto almeno presso l’Europa franco-tedesca, opposta all’interventismo internazionale americano. Col passare del tempo ha rinunciato anche a questo, e oggi la narrazione russa dipinge l’Europa come una sorta di junior partner manovrato da Washington.

Che è un po’ la stessa narrazione fornita nel caso della guerra in Ucraina. Ma al di là delle relazioni internazionali, quali sono le motivazioni dell’invasione provenienti dal contesto interno?

Nel Duemila, ancor prima di diventare presidente, Putin prometteva che in 15 anni la Russia avrebbe raggiunto il prodotto interno lordo pro capite di Portogallo e Spagna. Nel 2021 la distanza – circa il 30% in termini di Pil – è rimasta grande, così come rimangono al loro posto le disuguaglianze e l’arretratezza tecnologica. Ecco allora che ai sogni economici si sono dovuti sostituire quelli di grandeur militare, sfociati nell’attuale propaganda irredentista. A incentivare questa scelta ci sono gli armamenti nucleari, l’unica grande carta di Putin anche dal punto di vista bellico, visto che in una guerra eminentemente convenzionale l’esercito russo nulla potrebbe contro le forze Nato: la loro spesa militare è 17 volte quella russa, anche in ragione di un prodotto interno lordo 37 volte maggiore.

In ogni caso, l’Ucraina si sta dimostrando molto più forte e determinata di quanto il Cremlino non pensasse. A cosa è dovuta una sottovalutazione così palese?

Probabilmente, al momento dell’annessione della Crimea nel 2014, Putin percepì una debolezza che avrebbe potuto rendere possibile una conquista rapida di tutta l’Ucraina. Quello che lui e la sua intelligence militare non hanno calcolato, però, è che otto anni di preparazione militare col supporto della Nato e il crescente risentimento antirusso della popolazione ucraina hanno cambiato di molto gli equilibri.

Tornando alla ‘carta nucleare’, molti osservatori temono che la riscossa ucraina possa precipitare il mondo in una guerra atomica. A chi obietta che l’uso dell’arma nucleare da parte della Russia sarebbe irrazionale – anche un utilizzo limitato produrrebbe l’inevitabile annientamento delle sue forze da parte della Nato – si ricorda che l’uomo non è necessariamente un animale razionale, e Putin pare sempre più esagitato. Cosa ne pensa?

L’uomo è piuttosto un animale ottimista, dunque tende a rifugiarsi nella tesi della razionalità. Però la guerra è per sua natura irrazionale – tanto che non produce benefici, se non per quei settori dell’economia che ci lucrano – e anche il modello capitalistico che si è imposto negli ultimi due secoli mi pare dia spesso segni di scarsa razionalità. Questo impone cautela, pur senza cedere al ricatto putiniano.

D’accordo, ma come se ne esce?

La stessa cautela è essenziale anche rispetto alle ipotesi di soluzione del conflitto. Contrariamente a quanto rivendicato da Zelensky, non credo che la guerra possa concludersi con l’abbandono di tutti i territori ucraini da parte della Russia, Donbass e Crimea inclusi. Bisogna sconfiggere Putin, certo, ma non si può umiliare la Russia, che rischierebbe di cadere in mano a forze ancora più revansciste dello stesso Putin, col rischio che finiremmo per rimpiangerlo. Serve diplomazia, ma purtroppo finora ne vedo poca.

Lei scrive che la classe dirigente russa è "impolitica". Cosa intende?

Gli uomini intorno a Putin sono tecnici: il primo ministro Misustin non è altri che un esecutore, come pure la presidente della banca centrale. Inoltre ministri come Lavrov agli Esteri e Sojgu alla Difesa, o ancora i vertici di Gazprom e Rosneft, sono lì da moltissimi anni. Col passare del tempo la tendenza a diventare yesmen è evidente, come sempre succede nei regimi autoritari. Nessuno di loro sfida dunque l’impianto idologico putiniano, ma neppure sarebbe in grado di proseguirlo.

Ma allora, ancora una volta, ci chiediamo: e dopo?

Si aprirà una fase molto complessa: dubito che si uscirà dal putinismo con processi di riforma armoniosi e lineari. D’altra parte abbiamo già visto quanto siano state difficili le transizioni ai tempi di Kruscev e poi di Gorbaciov. Molto poi dipenderà dalla società civile, in un Paese in cui gran parte dell’opposizione è in esilio all’estero. Per questo l’esito del cambiamento deriverà parecchio dalla capacità dell’occidente di mettersi in ascolto, in comunicazione con la società russa. Resto comunque convinto che per certi versi il dopo Putin sia già iniziato.

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