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‘La destra sta fragilizzando sempre più il giornalismo’

‘Anziché elemento essenziale della democrazia, c’è chi lo vede come un problema’. Le considerazioni di Roberto Porta (Atg) dopo la decisione del Nazionale

Roberto Porta, presidente Associazione giornalisti ticinesi
(Ti-Press)
12 maggio 2022
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«Questa decisione si inserisce in una serie di altre scelte e prese di posizione che lasciano ben capire che per una parte dello spettro politico svizzero – mi riferisco in particolare alla destra – il giornalismo è un problema e non un elemento essenziale del funzionamento democratico della società». Non usa giri di parole Roberto Porta, presidente dell’Associazione giornalisti ticinesi (Atg), nel commentare la decisione adottata martedì dal Consiglio nazionale, seguendo quella degli Stati, di approvare la revisione del Codice di procedura civile per consentire a un giudice di bloccare in modo urgente e cautelare la pubblicazione o messa in onda di un servizio giornalistico o di una parte di esso nel caso in cui possa causare un "pregiudizio grave" al soggetto in questione, e non più "particolarmente grave" come prevede la legge vigente, e questo prima di sentire le ragioni dei giornalisti. Dopo un’accesa discussione in aula che ha visto contrapposti lo schieramento di destra (favorevole a modificare una legge ritenuta "troppo sbilanciata in favore dei media") e quello di sinistra (contrario a una misura "che limita la libertà di espressione"), è passata la prima linea: 99 sì, 81 no e 7 astensioni, con la deputazione ticinese che si è schierata a favore, eccezion fatta per Bruno Storni (Ps) e Greta Gysin (Verdi) fautori del no.

Roberto Porta, cosa comporta questa decisione per il lavoro quotidiano dei giornalisti? C’è chi sostiene che non cambierà granché.

Come Atg siamo molto preoccupati. L’implicazione c’è ed è importante soprattutto per quanto riguarda il giornalismo d’inchiesta, perché con questa scelta viene introdotto un ulteriore ostacolo e un elemento di fragilità nel sistema. Sarà infatti più facile bloccare un’inchiesta basata su un lavoro che magari si è protratto per settimane o mesi. La conseguenza è che le redazioni già in difficoltà economiche per tutta una serie di motivi noti (dal calo della pubblicità alla concorrenza dei social media, ndr) più difficilmente correranno il rischio di investire in un settore dove c’è il pericolo che tutto venga mandato all’aria. Viene così reso più complicato il lavoro dei giornalisti di inchiesta e c’è la concreta possibilità che questo settore, considerato il fiore all’occhiello della nostra professione, si ritrovi indebolito.

Che tipo di giornalismo è quello svizzero? Era davvero necessaria una modifica per tutelare le potenziali vittime che finiscono nel mirino dei media?

Già attualmente è iscritta nella legge una garanzia di tutela. L’articolo che è oggetto della modifica è gia stato utilizzato più volte per frenare delle inchieste (vi si è recentemente appellato Christoph Berger, presidente della Commissione federale vaccinazioni, per impedire in un primo momento la pubblicazione del proprio nome nella notizia che riferiva del suo sequestro, ndr). Ad esempio per quanto concerne la pratica di citare i nomi delle persone che vengono coinvolte in reati o in incidenti, la normativa elvetica è molto stretta, c’è una protezione forte della privacy del cittadino che dovesse trovarsi coinvolto in fatti del genere. Dunque, da questo punto di vista, esiste già una protezione importante dell’individuo.

Si tratta di un passo che può contribuire ad alimentare una certa ostilità diffusa nei confronti dei professionisti dell’informazione?

Direi di sì. C’è una forte corrente politica, costituita dalla destra non solo svizzera ma anche europea – e lo stesso succede negli Stati Uniti – che tende a voler ridimensionare, a volte anche a ridicolizzare il lavoro dei giornalisti. A questo si aggiunge il fatto che ci troviamo dentro a una rivoluzione tecnologica in cui tra i principali attori ci sono i social media. Nella convergenza dei due fattori è facile che il lavoro di una qualsiasi testata giornalistica venga preso di mira e screditato. E questo crea un clima non certo favorevole per la nostra professione.

Quale risposta si sente di dare a questa tendenza che va dallo screditare al ridicolizzare il lavoro giornalistico?

Credo che sia necessario insistere e ricordare con forza ai cittadini qual è il valore della nostra professione per il funzionamento della società. E ricordare anche – e questa forse è una questione indigesta – che ci sono dei diritti nell’essere cittadini, ma anche dei doveri, tra cui quello di informarsi e prepararsi sulle questioni più importanti che riguardano il mondo che ci circonda. È attraverso questa preparazione, questa conoscenza, che si riesce a far vivere meglio tutta la comunità. Mi rendo conto che forse si tratta di un discorso un po’ antipatico, perché come diceva Ignacio Ramonet, il direttore di diversi anni fa di ‘Le Monde diplomatique’, "s’informer fatigue". Ma, aggiungo io nel mio piccolo, "ça vaut la peine".

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