IL REPORTAGE

Kharkiv, città sotterranea. Rifugio dalla paura

Le esplosioni risuonano giorno e notte. Ogni fermata della metropolitana è diventata casa, l’unica salvezza per migliaia di persone

(keystone)

Jacob Chercov insegna la Torah al centro culturale ebraico di Dnipro. È un membro attivo della locale comunità ebraica e ha una passione per le arti marziali che porta avanti con dedizione da due decenni. Da quando è scoppiata la guerra è diventato un volontario delle Unità di Difesa Territoriale. Allo Shabbat questa volta sua moglie non c’è, ha avuto una dispensa dal rabbino, perché anche lei è impegnata come volontaria e tutti i giorni smista scatoloni di medicinali che arrivano al centro di raccolta principale della città che si trova lungo la riva del fiume Dnepr. Il rabbino Shmuel Kaminetsky, capo della comunità, è attorniato da un gruppo di persone. Sta dando indicazioni per organizzare lo spostamento di una settantina di ebrei di Kharkiv, da più di due settimane teatro di terribili bombardamenti da parte delle forze militari di Mosca. La Russia è a pochi chilometri di distanza e tanti hanno parenti dall’altra parte del confine. Questo crea ancora più sgomento nella popolazione, che oggi vede distruggere un pezzo alla volta la propria storia e la sua stessa esistenza da missili e bombardamenti aerei portati dai soldati di Mosca.

Tutto è immobile a Kharkiv

Le esplosioni risuonano notte e giorno, gli scambi di artiglieria tra le posizioni ucraine e quelle russe sono continui. Il fronte deve tenere a ogni costo ma a est i russi avanzano. Il rischio è di dover tenere aperto un secondo fronte. In città la maggior parte dei negozi sono chiusi, ogni attività si è fermata. La benzina è razionata e si possono fare solo venti litri al giorno, dopo ore di attesa, nei pochissimi gestori rimasti aperti. Tutto è immobile a Kharkiv. Anche in metropolitana i treni non si muovono, fermi nelle stazioni, perché i vagoni si sono trasformati in case. Chi non ha trovato posto all’interno, dorme per terra, nei sacchi a pelo, su materassi, stuoie, brande. Ogni fermata è diventata una casa per chi ha paura a dormire in casa e scappa dai quartieri a nord della città. Come quello di Saltivka, che è diventato un inferno. Quando i razzi e i colpi di artiglieria aumentano, quando gli aerei sganciano sui tetti di Kharkiv il loro carico di morte, questi luoghi diventano l’unica salvezza per decine di migliaia di persone. E molti, poi non se ne vanno più. La paura è forte. Le obliteratrici all’ingresso, dove si trova la biglietteria, non funzionano, le porte di queste città sotterranee rimangono sempre aperte e l’orologio elettronico sulla banchina non segna più i minuti che mancano al prossimo treno.

‘La nostra città, una delle più belle dell’Ucraina’

A Kharkiv, come in altre città dell’Ucraina, si muore. Ira, quarant’anni, è un’insegnante di fitness e una designer industriale. "Tutto questo è orrendo. Perché ci bombardano? Il presidente russo è un pazzo. La nostra città era una delle più belle dell’Ucraina, adesso non c’è più nessuno. Vivo sottoterra da due settimane e non posso andarmene da qui perché ho tre vecchi cani, mia madre e mia nonna a cui badare. Qui sotto mi sono portata i miei due gatti e un cane insieme a mio marito e mio figlio".

Fuori, è zona di guerra

Andrii Bilchenko vive nel vagone accanto insieme ad altre due famiglie. Ha lavorato sette anni sul lago di Garda. Faceva lo stuntman, il mago e il cavaliere in un parco divertimenti. "Al settimo giorno di guerra ho perso la testa, mi sono sentito male a stare sotto i bombardamenti e sono arrivato qui. Mia madre ha voluto rimanere nel suo appartamento, non c’è stato verso, anche se il suo quartiere è stato pesantemente bombardato. Vi chiedo solo una cosa: fate smettere di volare gli aerei russi". Fuori, in superficie, è zona di guerra. Lungo il viale principale suona da giorni, ininterrotto l’allarme di una banca. Le vetrine sono completamente sfondate e così ogni finestra di ogni casa, negozio o ufficio che si trova nel raggio di un chilometro quadrato. Dalle scale di un negozio di vestiti scende una cascata d’acqua. Due senzatetto tentano di rubare una cassa di birra e altri oggetti da un chiosco. Uno barcolla. Troppa vodka. Semafori a pezzi, blocchi di cornicione volati lontano decine di metri, mattoni sbriciolati, pezzi di lamiera e detriti ovunque. A qualche centinaio di metri il palazzo del governo o meglio, quello che è rimasto dopo l’arrivo del missile balistico che ha distrutto ogni cosa qui intorno. Un gruppo di macchine bruciate, accartocciate, è stato spostato in mezzo a una strada dall’onda d’urto. Per passarci in mezzo si deve fare uno slalom tra le carcasse annerite. Il palazzo, dentro, è un gigantesco cumulo di macerie. Nel cortile interno è visibile l’enorme voragine che il missile ha provocato. Anche questo non era un obbiettivo militare. Eppure è stato colpito. "Qui era parcheggiata un ambulanza, ma non siamo riusciti a trovarne neanche un frammento, dopo l’esplosione".

Ogni via porta i segni della distruzione

Oleg aveva un negozio di fotografia a Kyiv. Oggi imbraccia un Ak-47 in mezzo alla neve che spazza i viali di Kharkiv. Le esplosioni si susseguono per tutto il giorno. Cupi, enormi colpi di maglio che fanno tremare la terra e le menti. Nel quartiere di Schevchenivsky una palazzina è stata colpita all’ultimo piano. Sotto, un asilo, completamente sventrato. In una stanza rimangono delle sedie colorate e una lavagna. Il resto è distrutto, bruciato. Poco distante la stessa sorte è toccata a un altro complesso di case popolari. Un gruppo di poliziotti esce da una macchina e corre verso queste modeste abitazioni, sbriciolate dall’esplosione. Hanno segnato atti di sciacallaggio. La jeep è quasi pronta. Nei sedili posteriori e nel bagagliaio Alex e Denis hanno caricato sacchi contenenti cibo, acqua, medicinali e tutto quello che può servire per sopravvivere qualche giorno. Ogni sacco ha un numero e ogni numero corrisponde a un luogo e a una persona. In genere sono persone anziane, sole o famiglie impossibilitate a muoversi. Il luogo da cui partono ogni giorno decine di corrieri che portano aiuti in tutta la Kharkiv, specialmente nei quartieri a nord più difficili da raggiungere perché quotidianamente bombardati dai russi, è segreto. Una precauzione presa da questi ragazzi, la maggior parte trentenni, che dall’inizio della guerra lavorano senza sosta per gestire una catena di approvvigionamento che sforna millecinquecento pasti al giorno e movimenta tonnellate di merci. Un magazzino sotterraneo, ricavato da un rifugio antiatomico della Seconda Guerra Mondiale che connette, attraverso una serie di passaggi, diversi locali e palazzine di questo quartiere. Qui ogni mattina alle sette, decine di loro lavorano senza sosta. Diversi non tornano neanche più a casa. Due stanze sono state adibite a dormitorio. Vlad Glavachek, trentaquattro anni, nella sua vita precedente era un manager per lo sviluppo commerciale. Oggi comanda questa struttura di civili. "Abbiamo organizzato il nostro gruppo in modo militare. Siamo in guerra d’altronde, no? A volte abbiamo da svolgere compiti semplici, come la consegna di cibo, altre dobbiamo consegnare medicinali costosi per persone malate, altre volte ci sono emergenze per incidenti stradali dovuti ai bombardamenti e anche in quel caso interveniamo. Ci focalizziamo sugli individui, chiunque abbia bisogno di un aiuto". Michael Chernomorets è uno dei suoi collaboratori ed è il capo delle operazioni logistiche. "Ho iniziato organizzando convogli di macchine che portavano a Poltava le persone che volevano scappare, e prima di tornare indietro facevo scorta di merci. Il secondo giorno di guerra, avevamo già messo in piedi tutta la logistica. Abbiamo corrieri che consegnano ovunque. Diamo da mangiare a chi sta nei rifugi, nella metropolitana, negli ospedali e ovviamente anche ai militari e alla polizia. Siamo strettamente connessi con la città di Dnipro e quando portiamo gli sfollati da loro torniamo carichi di merci a Kharkiv". La jeep parte attraversando il centro semidistrutto della città. Si sta dirigendo a Saltivka nord, la parte più avanzata del distretto, in prossimità della tangenziale, a meno di cinque chilometri dai soldati russi. Un quartiere popolare, quello di Saltivka, composto da decine e decine di palazzine tutte uguali costruite tra gli anni settanta e ottanta. Solo un paio di giorni prima uno dei corrieri è stato ucciso in queste vie da un colpo di mortaio. Mentre la jeep si dirige ad alta velocità lungo il viale Akademika Pavlova, superato il capolinea dei tram e l’ultima metropolitana, tra i cavi penzolanti delle linee elettriche distrutte e gli edifici sventrati dalle bombe, appaiono sempre più evidenti i segni della barbarie portata da Mosca in questa città di frontiera. Interi piani sventrati dalle esplosioni. In uno degli appartamenti, completamente andato a fuoco, rimangono le tracce di una normale vita familiare: i piatti decorati, le tazze da tè, tutto ridotto in frantumi, mescolato a cenere e neve. I resti di un salotto. Poco più in là una bicicletta da bambino. Nella stanza, annerita dal fumo, è sopravvissuto alle fiamme un orsacchiotto di peluche. Dell’appartamento non rimangono neanche i muri. Ogni via qui porta i segni della distruzione.

‘La disinformazione del governo russo funziona’

Una signora si avvicina con un barboncino al guinzaglio. Il cane, con la coda tra le gambe, trema a ogni colpo di artiglieria che scuote l’aria. Si chiama Halina Krichkova, professoressa universitaria di inglese in pensione. "Ho una sorella a Mosca e posso dirvi che la disinformazione portata avanti dal governo russo funziona. Quando le ho detto che eravamo stati attaccati, mi ha risposto che lei non credeva alla stampa occidentale e che era fiera del suo governo. Me l’ha scritto in questo messaggio, guardate. L’ho pregata di credere alle mie parole, che eravamo in pericolo e che qui i soldati russi uccidevano i civili ma non mi voleva ascoltare. Diceva che il suo governo faceva bene e che a Mosca i tossicodipendenti li tenevano negli ospedali, non al governo come da noi in Ucraina. Mia sorella crede a quello che gli dice il presidente Putin e non crede me", dice piangendo.

Il checkpoint che porta nella terra di nessuno è presidiato da una decina di soldati ucraini. Uno di loro, Igor, meno di un mese fa era in Albania a un torneo internazionale di arti marziali. È tornato a casa un giorno prima che scoppiasse la guerra. Le palazzine in fondo al vialone vengono nuovamente colpite dai russi. Una colonna di fumo nero si alza verso il cielo.

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