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Il più grande, luttuoso, tragicomico carnevale

‘In occasione dell’epidemia’ (Casagrande), il diario che non è un diario sulla quarantena italiana di Francesco M. Cataluccio. L'intervista all'autore

'Una grande fiera dell'assurdo' (Francesco M. Cataluccio, scrittore e saggista)
28 maggio 2020
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“A volte sogno che questo incubo sia un sogno che sto sognando. Mi sveglio di soprassalto incerto e incredulo del silenzio irreale delle strade, rotto dall’ululare disperato delle ambulanze”. Si aprono così le centodiciannove pagine di ‘In occasione dell’epidemia’ di Francesco M. Cataluccio, scrittore e saggista italiano; un diario che non è un diario (edito da Casagrande) e che si eleva per questo a lucida, fluida, a tratti ironica e autoironica riflessione sull’Italia nei mesi di quarantena. Cataluccio – studi di filosofia, arte e letteratura a Firenze e Varsavia, Premio Dessì per la letteratura 2010 per ‘Vado a vedere se di là è meglio. Quasi un breviario mitteleuropeo’ (Sellerio) e, nel 2013, Premio Ryszard Kapuściński – fonde cronaca quotidiana della pandemia, memorie di gioventù e rimandi letterari producendo un organico e ordinato flusso di pensieri sulla reclusione, aggiornato a poco prima della deriva della stessa in triste bega politica. «Avendo letto un articolo che avevo scritto per il Post – racconta a laRegione Cataluccio – Casagrande mi ha chiamato proponendomi un diario. Ho risposto che non avrebbe avuto quella forma, che non amo, ma che avrei scritto delle considerazioni…».

Non è un diario, ma c’è molto di personale; non è un resoconto, ma c’è tutto quel che ci ricorderemo...

Quando mi sono ritrovato segregato in casa per decreto, ho pensato di approfittarne per scrivere finalmente un libro pensato da molti anni sulle wunderkammer. Solo che scrivere di queste corti rinascimentali in cui si raccoglievano oggetti strani e meravigliosi da mostrare poi ai visitatori illustri mi sembrava così stonato rispetto alle notizie che arrivavano da radio, tv e giornali che ho provato quasi un senso di disgusto fisico per quel che stavo scrivendo. È nato così. Il libro è vario, ci stanno dentro storie, riflessioni, considerazioni, notizie che arrivavano e che mi sembravano poco considerate.

E tanti rimandi a quella letteratura che anticipa la catastrofe…

Senza considerare la fantascienza, che nel libro non ho toccato, la letteratura ha spesso rappresentato l’inimmaginabile. Seppure romanzi e film hanno riprodotto aspetti di questa tragedia che abbiamo vissuto, altra cosa è verificarla nella realtà, dove assume forme sempre diverse. Per questo ho voluto ricordare le parole di mia nonna quando diceva “voi non potete nemmeno immaginare cos’è stata la guerra”. Credo che quando racconteremo di questi mesi ai nostri nipoti, inevitabilmente dovremo iniziare il racconto con questa frase.

All’inizio del libro lei riassume l’accaduto con un termine assai caro agli svizzeri, ‘carnevale’, e gridando al ‘surrealismo’, sposando la tesi della filosofa Simone Weil secondo la quale esso è “responsabile della dissoluzione morale di questo mondo”…

Sì, ho guardato i fatti sotto una lente di una sorta di tragicomico carnevale, non solo perché nei giorni in cui il virus è esploso il carnevale cominciava, ma perché tutte le cose che sono avvenute, a parte il dolore e la sofferenza di tantissima gente, mi sono sembrate assurde. È stato come se l’assurdo si fosse impadronito della nostra realtà con aspetti, appunto, surreali. Una grande fiera dell’assurdo, che è il leitmotif che unisce le storie contenute nel libro.

Tra i rimandi artistici, cita il libro ‘Pittura a Firenze e Siena dopo la morte nera’ di Millard Meiss, studioso che indentificò nella peste del 1348 la svolta nella pittura e nel gusto dell’epoca. Quale svolta dobbiamo attenderci da questa peste del 2020?

Il periodo che abbiamo trascorso e che a Milano continuiamo a trascorrere ha già lasciato un segno nella coscienza delle persone. Non so come, dal punto di vista dell’espressione artistica, tutto questo cambierà il futuro in questo campo. Certo, il solo fatto che per tre mesi nessun teatro, cinema, sala concerti ha potuto lavorare cambierà le forme dello spettacolo. In questa situazione è tornato in mente questo libro letto trent’anni nel quale viene messo in evidenza come dopo quel tragico evento, la pittura di Giotto e dei grandi artisti che gli ruotano intorno viene improvvisamente dimenticata in luogo di artisti considerati ingiustamente, a mio parere, minori, per i quali si parla di un ritorno indietro. Ma così non è, come nel caso di Orcagna. L'aver visto i cadaveri per le strade, la malattia, la paura, la morte, tutto questo gli ha tolto quella fiducia nell’uomo che invece troviamo in Giotto. Sono dipinti molto più religiosi, se vogliamo. Ci si affida all’unica cosa possibile in quel contesto, e l’uomo è visto come un essere fragile e quasi marginale. Mi sono chiesto se questo non potrebbe essere, in forme diverse, una conseguenza di tutto quello che è successo.

Altri rimandi d'arte: nelle uova di Fontana, il vuoto di Milano…

Sì, i pannelli ovali di Lucio Fontana da lui stesso definiti 'uova pasquali’, tagliate, bucate, come colpite da raffiche di mitra. Questo rapporto tra forme anche cromaticamente giocose e allo stesso tempo violentate mi sono sembrate un’ottima rappresentazione della tragedia. Delle ferite, da una parte, e dall’altra il senso di vuoto della Pasqua, quel temporaneo vuoto in cui non c’è nulla, non c’è Dio, un vuoto molto forte rappresentato a mio parere in modo coraggioso da Papa Francesco con la messa nella Piazza San Pietro deserta, sotto la pioggia, e con la Via Crucis. Due momenti simbolici per i quali è stato inevitabile porsi la domanda “Ma Dio dov’è?”, la domanda che si è potuto porre tanto questo papa vestito di bianco che prega di fronte a nessuno quanto l’uomo confinato nei campi di sterminio. Una domanda, anche per chi come me non è religioso, molto importante.

Suo padre, partigiano, frequentava la terra bergamasca. Ha conosciuto quella gente abituata a non alzare la voce, forse nemmeno adesso che potrebbe. Malgrado le modalità con le quali sono stati gestiti i loro anziani, modalità che lei annovera nel ‘tragicomico’, mantengono un dignitoso contegno…

Tornavo in quei posti con mio padre a trovare i suoi ex compagni di resistenza. Gente dura, molto religiosa, sottoposti sì, a quest’apocalisse tragicomica più tragica che comica senza avere gli strumenti per capire cosa stesse succedendo. Se non il fatto che è accaduto anche in quelle valli, apparentemente legate a un tempo passato, il manifestarsi di quel capovolgimento della realtà che è la globalizzazione. Racconto di questa fabbrica che a Nembro costruisce le barche più belle e competitive del mondo, una fabbrica che sta lontanissima dal mare, infilata in una valle a pochi chilometri da Bergamo…

…dando un senso alla Svizzera che vince la Coppa America, mi permetto di dire. Parlando della gestione dell’emergenza, una delle sue conclusioni è “più che concentrarsi sul dopo è il caso di concentrarsi sul prima”.

Sul dopo non ci sono molti elementi se non quelli che servono a riempire le pagine dei giornali e dei talk show. Gli stessi scienziati non hanno ancora capito di che virus si tratti, gli economisti non hanno gli strumenti per capire le conseguenze che tutto questo avrà sul nostro paese e nel mondo. Speculare sulle sabbie mobili mi pare una cosa priva di senso. Se in autunno arriverà la seconda ondata di cui si dice, dovremmo aver capito alcune cose, e cioè che il controllo sanitario del territorio è fondamentale e che fondamentali sono figure come il medico di famiglia che di te conosceva anche il minimo raffreddore o mal di pancia.

Di quella letteratura che anticipa, lei cita il ‘Diario della guerra al maiale’ dello scrittore argentino Adolfo Bioy Casares, dove il maiale è l’anziano che, un bel giorno, per i giovani di Buenos Aires, diventa inutile e dunque oggetto di caccia a scopo di sterminio…

Quello degli anziani è stato uno dei temi dei dibattiti sulla stampa. Le testimonianze dicono che in molte terapie intensive, senza i posti sufficienti, gli over settanta-ottanta sono stati sacrificati in partenza. Questo ci impone riflessioni. Il racconto di Casares porta alle estreme conseguenze come spesso accade nella letteratura dell’America latina.

In quel romanzo, per la precisione, si parla di sterminare quelli dai cinquanta in su. Ci siamo dentro in tanti…

Oh sì, ma l’età, se è per questo, si può abbassare di quanto si vuole (ride, ndr). Per me, il fatto che ci siano persone che pur sopra una sedia a rotelle campano novant’anni è un segno di civiltà. Mai, nemmeno quand’ero più giovane mi è capitato di pensare che si trattasse di uno spreco di risorse o di denaro. Su questo punto è necessario che filosofi, teologi, i pensatori riflettano. La guerra tra generazioni potrebbe essere una delle conseguenze più catastrofiche di tutto quello che abbiamo vissuto.

Chiudo citando quella che lei chiama “la menzogna tripla” di chi dice che l’epidemia è “un’occasione”.

Molti dicono che sarà meglio di prima, che abbiamo sperimentato la solidarietà, che abbiamo capito che si deve del rispetto alla natura. Io invece sono abbastanza pessimista. Non sono così convinto che questa disgrazia ci porterà più consapevolezza, più coscienza. Credo che nelle difficoltà che inevitabilmente ci saranno nei prossimi mesi, anni, il rischio che prevalgano l’egoismo e la cecità sia molto forte.

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