La vena della scrittrice italiana è cruda, schietta, lucida e dà vita a narrazioni che sono come una colata lavica
Pubblichiamo un contributo apparso su ticino7, allegato a laRegione
Nata a Roma il 13 giugno del 1914, Ortese muore a Rapallo il 9 marzo 1998. Dentro queste date estreme, la scrittrice vive ottantatré anni non sempre facili. I suoi studi sono piuttosto irregolari, più che altro è un’autodidatta e, dopo una parentesi come correttrice di bozze, inizia a collaborare con testate e riviste di rilievo. E scrive, pubblicando una manciata di romanzi, una decina di racconti e ancora saggi e scritti di viaggio, senza dimenticare poesie ed epistolari. La sua vena è cruda, schietta, lucida e ha la forza di una colata lavica. Negli anni si guadagna il riconoscimento dei Premi Strega, Campiello e Viareggio.
Forse il genio è uno che sbaglia tutto, sistematicamente, nella vita e in ciò che fa. Sbaglia tutto perché non pensa a niente. E in tal modo arriva a scoprire l’inesistente e a poter mostrarlo agli altri. Le circostanze faranno sì che il suo lavoro, che non è un lavoro, sia riconosciuto oppure no. Anna Maria Ortese non si può dire che sbagliò tutto, ma certo che non pensava a nulla, non pensava mai al risultato. La sua vita può ricordare, negli ultimi anni più che altro, e un poco abusivamente, quella della filosofa spagnola María Zambrano. Di città in città insieme alla sorella (“Mia sorella è stata la mia patria; non ne ho avuta un’altra di patria, io”). Così capitò alla Zambrano fino al rientro dall’interminabile esilio, che cominciò ad amare tanto che tardò il rimpatrio finché le fu possibile. La povertà di vita, in entrambe, generò il vuoto e la libertà di scrittura. E nei due casi cercare il centro del mondo fuori dal mondo, o dal mondo come stava diventando.
L’esordio del 1937 non poteva essere nel nome, Angelici dolori, più calzante e preveggente. La sua narrativa conservò sempre un nucleo di purezza e dolore. Lo scelse Massimo Bontempelli, mentore autorevole, ma che si rivelò scomodo. Due critici ugualmente autorevoli, Vigorelli e Falqui, per colpire lui colpirono il libro, e le due recensioni lasciarono il segno sul suo esordio. Il secondo libro venne tredici anni dopo e fu una nuova raccolta di racconti, L’infanta sepolta, e il terzo, Il mare non bagna Napoli (1953), rappresenta il primo vero centro, la maturità - com’era possibile alla sua vena acerba, acre - e lo “sbaglio” ancora più grande. Compartecipe anche qui il mentore di turno, Elio Vittorini (suggeritore del bellissimo titolo). Errore fu considerato andare a visitare gli scrittori napoletani del momento, Luigi Compagnone e Domenico Rea, Raffaele La Capria, fra gli altri, che l’autrice aveva conosciuto e frequentato molti anni prima. Ora li vide tutti stanchi o distratti, arresi o “morti”, e ne fece un ritratto spietato. Li “scrisse”, per dire meglio, esattamente come li vide. E chi può resistere visto molto da vicino, reduce da una giovinezza perduta, con tutti gli ideali che la animarono, se la scrittrice-reporter vuol descrivere proprio tutto quel che vede?
E a quella stessa luce cruda sottopose la stessa città. Anche qui l’autrice fu responsabile in parte (grande parte), perché al momento di decidere se fare o non fare i nomi di quegli scrittori, Vittorini scelse il sì. Quel che seguì alla pubblicazione furono polemiche e sdegni che risultarono per la Ortese addirittura traumatici. A leggere oggi quel lungo capitolo de Il mare non bagna Napoli, che è anche l’ultimo: Il silenzio della ragione, puoi pensare che pur di arrivare a tale lucidità e precisione, tremendo disinteresse, freschezza e ferocia, con una buona dose di masochismo, forse si può sopportare, dopo, un trauma di media portata. Ma le cose erano fatte e Anna Maria Ortese consolidava la sua fama e formava le sue varie scritture. Agli scritti brevi avrebbe dato generalmente l’aspetto tra il reportage e il racconto, ai lunghi - L’iguana, Il porto di Toledo e gli altri due maggiori romanzi che formarono con L’iguana una imprevista trilogia: Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari - le fattezze del romanzo più informe e insieme controllato. Calcolata e distante ogni frase, ma il complesso come una colata lavica.
Si legge in Alonso e i visionari: “Ma la vera pazzia non esclude una mente sana, splendida talora. È un’estraneità totale, al mondo, s’intende. Un buco nella intelligenza, nell’azzurro, dal quale entrano il freddo e la cecità degli spazi stellari”. “Estraneità” è un concetto che vale per il suo sguardo quanto accostamento o partecipazione. E “freddo” sarà sempre presente e attivo accanto a “calore”. Ma: “Non esiste pietà senza spietatezza”, pensava un’altra scrittrice, Lalla Romano. Una materia incandescente si può fissare solo con un getto di acqua gelida. La tenerezza rendere effettiva con la durezza, il candore con una specie di violenza del pensiero e dello sguardo. E tutto per rendere operante l’umanità e la vera solidarietà a quel che succede agli esseri umani in questo mondo. La scrittura di Anna Maria Ortese è politica perché sociale ed è sociale perché umanitaria. Scrutando la realtà fino a riplasmarla. Dentro la realtà inventata, distorta, deformata, le schegge di realtà reale.
Il porto di Toledo, di cui ricorrono i cinquant’anni, assume un’importanza centrale in ogni senso. Si tratta dell’invenzione dell’infanzia, del ritorno all’infanzia e alla giovinezza per stravolgerle a forza di immaginazione, retrospettivo desiderio, nostalgia, amore folle per i propri familiari, attrazione per quella materia - la sua vita di allora - anche se ti lacera e ti violenta. Leggiamo fra le prime pagine: “Mi feci la penna che era possibile farmi: un’asticciola colorata, tremante, villana, e nello stesso tempo, intinta come era nel buio presente, non poco vuota e cupa. Sì, mandava talora suoni cupi”. E proprio tra le prime righe, a chiudere il “riassunto” che precede ogni capitolo: “Primi interrogativi della mente che sogna”. Superfluo suggerire ancora una volta che qui - nel tremore e nella villania, nell’interrogazione, nell’onirico - c’è tutta la Ortese che sarà. “Tra polemica morale e fantasia trasfiguratrice”, scrive uno dei suoi critici. La naturale domatrice di forze contrastanti: umanità e crudezza, selvatichezza e dolcezza, smisuratezza e misura, vicinanza e distanze “stellari”.
Credeva che Il porto di Toledo sarebbe stato il suo ultimo libro, e anche se scrisse poi per altri vent’anni, fino agli ultimi, in realtà lo fu perché non riusciva a staccarsene. Lo riprese e riscrisse e la morte la trovò sul punto di terminare il suo romanzo più esemplare e più difficile da leggere, forse per eccesso di intensità. E la serie degli altri eccessi accennati: di immaginazione, desiderio, nostalgia, amore, sofferenza. La difficoltà non stupisce: leggere autenticamente un libro è un po’ come scriverlo. Se non sei in grado di scriverlo - è un’immagine e un paradosso ovviamente - non potrai leggerlo davvero. Oltre questo, nel Porto di Toledo l’incandescenza compare non plasmata, forse, dal ghiaccio che subentra nei romanzi successivi come fissativo. E l’effetto può essere, per esempio, simile a quello che fa alla scrittrice camminare per via Roma, “l’antica Toledo”, e osservare la gente (Il silenzio della ragione): “Qualcosa vi appariva spezzato, o mai stato, un motore segreto (...) che dà freno al colore, perché appaia la linea. Non vedevo la linea, qui, ma un colore così turbinoso, da farsi a un punto bianco assoluto, o nero. I verdi e i rossi, per la rapidità erano divenuti marci; gli azzurri e i gialli apparivano sfatti. Solo il cielo, a momenti, viveva, e la sua luce era tale che bisognava farsi schermo con gli occhi”.