Proprio quarant'anni fa, dopo una lunghissima agonia, moriva uno dei più promettenti sciatori italiani di un'epoca lontana
È stato ovunque salutato con favore, tre giorni fa, il successo numero 100 in Coppa del mondo firmato da Mikaela Shiffrin. A suscitare piacere non è stato soltanto il fatto che si tratta di un record strepitoso e fra l’altro ottenuto da una fuoriclasse che piace a tutti: rassicurante si è rivelato anche avere conferma che la statunitense, dopo il brutto incidente subito a Killington lo scorso novembre – che l’ha molto segnata nella testa oltre che nel fisico – è ancora capace di vincere.
Un profondo squarcio all’addome – di cui ancora oggi non si conoscono le cause precise – è qualcosa a cui un’atleta, benché di grandissima esperienza come l’ormai trentenne campionessa del Colorado, non è certo abituata. E infatti, per sua stessa ammissione, l’americana ha fatto parecchia fatica a riprendersi dai traumi di vario tipo che l’anomala ferita le aveva provocato.
Certo è che quest’anno – ma in realtà il fenomeno è in atto già da qualche stagione – nello sci alpino, oltre a quello veramente insolito occorso alla Shiffrin, si sono verificati, in gara come negli allenamenti, davvero molti incidenti gravi. Gli infortuni hanno infatti fin qui tolto dalle competizioni un numero incredibile di atleti, fra i quali – solo per citare qualche nome – figurano elementi come Pinturault, Tommy Ford, Sarrazin, Ricarda Haaser, la nostra Andrea Ellenberger e il nostro Gino Caviezel.
Numerose potrebbero essere le cause di una simile frequenza di ferimenti di tale serietà, e dare una risposta esaustiva risulterebbe davvero difficile. È però innegabile – e gli esperti paiono concordare – che, un po’ come succede nel ciclismo, altro sport in cui ci si fa male sempre più spesso e sempre più gravemente, la ricerca e lo sviluppo dei materiali hanno finito per dotare gli atleti (a loro volta sempre più performanti) di attrezzi capaci di prestazioni davvero mostruose. Tanto da rendere alcune discipline rischiose forse anche più del necessario.
D’altro canto, va detto pure che – insieme alle velocità di punta e alle sollecitazioni a cui gli sciatori sono sottoposti – sulla neve nel corso dei decenni è cresciuto anche il livello di sicurezza: per quanto attiene allo sci alpino, tracciatori e tecnici sempre più preparati, insieme ai progressi in campo medico e scientifico in generale, hanno contribuito, se non a ridurre il numero di incidenti, quantomeno a renderne meno gravi le conseguenze. Una volta, infatti, nel Circo bianco non solo ci si faceva male, ma ogni tanto ci si lasciava purtroppo anche la pelle.
Non sono certo pochi gli atleti che hanno perso la vita in gara o durante un allenamento, e così a memoria mi vengono in mente i nomi di Ulrike Maier, Sepp Walcher, Ross Milne, Gernot Reinstadler, Silvia Suter e Regine Cavagnoud, tutta gente che alla propria passione agonistica ha sacrificato il bene più prezioso che possedeva. Quello che però ricordo con maggior commozione – forse perché la sua vicenda si consumò quando ero bambino, età in cui da certi eventi si rimane più impressionati – è Leonardo David, di cui proprio oggi ricorre il quarantesimo anniversario della scomparsa.
Valdostano, classe 1960, bravo nelle discipline tecniche, David vinse la sua unica gara di Coppa del mondo nel febbraio del 1979, tagliando il traguardo di uno slalom davanti a due mostri sacri come Ingemar Stenmark e a Phil Mahre. Dieci giorni più tardi, allenandosi nella discesa di Cortina, cadde battendo il capo sul ghiaccio e cominciò ad accusare vertigini, nausea e mal di testa. Malgrado ciò, venne colpevolmente fatto imbarcare per gli Usa e, due settimane dopo, si presentò alle prove della libera di Lake Placid. Quasi al traguardo, cadde un’altra volta, goffamente, e di nuovo picchiò la capoccia. Riuscì a rialzarsi, ma fatti pochi metri, nell’area d’arrivo crollò fra le braccia del suo compagno Pierino Gros, perdendo i sensi. Leonardo David, promessa dello sci che doveva ancora compiere 19 anni, piombò in un coma dal quale non si sarebbe mai più risvegliato, e trovò la morte, dopo una penosa agonia durata ben sei anni, il 26 febbraio 1985.