A metà stagione il bollettino medico è cospicuo, ma le soluzioni non sono facili da trovare. Genasci: ‘La maturità dell’atleta gioca un ruolo chiave’
L’anno scorso Lauberhorn e Olympia delle Tofane avevano mietuto crociati (e, purtroppo, non solo) a più non posso. Questo weekend è stata la Streif a presentare un conto salato, tant’è che, ormai a metà stagione, il bollettino medico rimane sostanzioso. Le polemiche fioccano quasi ogni settimana. Che sia il tracciato esigente, la neve più o meno dura, l’attrezzatura troppo performante o la visibilità. Un batti e ribatti. «Non si riscontrano cambiamenti significativi nella geometria e nella struttura dei materiali. È possibile, però, che i miglioramenti nella loro preparazione abbiano giocato un ruolo: in occasione di una spigolata o di una caduta potrebbero amplificarne le conseguenze», spiega l’ex atleta Kevin Genasci, formatosi nella famiglia di TiSki. Il set up, ossia la combinazione fra lamine, attacchi e scarponi, può rendere lo sci «più aggressivo nei confronti della neve. E, dunque, meno tollerante a errori». La concorrenza è agguerrita, piccole sbavature possono escludere dal podio. Dall’apice all’oblio. «I campioni riescono a dosarsi e implementare una strategia di gestione del rischio, sia nel corso della stagione che nelle singole discese. Chi è meno talentuoso, invece, può essere maggiormente propenso a spingersi oltre i propri limiti» aumentando la probabilità d’infortunarsi.
Forse alcuni osano l’impossibile, senza pensare alle conseguenze? Emblematica la terribile caduta di Aleksander Aamodt Kilde che, nonostante fosse malato, ha deciso di percorrere la discesa più lunga e faticosa del Circo Bianco. «È sicuramente un punto cruciale: spetta in primis alla maturità dell’atleta saper decidere se correre o meno, valutando le proprie capacità psicofisiche del momento. Una scelta inevitabilmente condizionata da obiettivi personali, che sia la posizione in classifica o eventuali future qualificazioni». È sulla medesima lunghezza d’onda il fisioterapista Alfio Albasini, che mette l’accento sulle pressioni di allenatori, sponsor, media e tipo di manifestazione. Come le Olimpiadi, disputate ogni quattro anni. «Non bisogna inoltre dimenticare che la stagione può essere molto lunga. Chi è polivalente, cioè disputa più discipline, grava sulle proprie articolazioni e sulla colonna vertebrale – soprattutto la zona lombare – comportando un sovraccarico della struttura muscoloscheletrica. Pensiamo a quando Lara Gut-Behrami si è rotta il crociato durante i Mondiali di St. Moritz. Il suo corpo era stanco, ma non l’ha purtroppo ascoltato spingendo ulteriormente». Non è comunque raro infortunarsi più volte nel corso della carriera. Le tempistiche del recupero non sono rispettate, dunque le ricadute sono più frequenti? «Non direi, anzi, la riabilitazione ha fatto passi da gigante. Trent’anni or sono, operato il crociato, il ginocchio veniva messo in una stecca e tenuto fermo per quattro settimane. Oggi, invece, viene subito mobilizzato. E, trascorsi circa sette giorni dall’intervento, raggiunge già i 90 gradi di flessione». Il recupero fisiologico è rispettato, assicura il fisioterapista, tuttavia subentrano altri parametri come «la percezione del corpo dell’atleta, la sua caratteristica biomeccanica, il gesto sportivo o la componente psicofisica». Spesso è lo sciatore che accelera i tempi. «È necessario dimostrare maturità, prendendo decisioni ragionevoli e il più oggettive possibili grazie a un’attenta consulenza medica», chiosa l’ex portacolori di TiSki. «Chi gareggia è pienamente consapevole dei rischi, può scegliere quanto è disposto a mettere in gioco la propria salute. La carriera sportiva può lasciare segni permanenti sul corpo». Ad esempio Beat Feuz si è sottoposto a dieci operazioni alle ginocchia, senza riporre anzitempo il casco nell’armadio. Non sono però tutti così fortunati, talvolta i dolori possono influenzare l’atleta che non riesce più a competere in modo agonistico. «A un giovane, che intende continuare a sciare nonostante i guai fisici, spiegherei dunque quali conseguenze potrebbe incontrare. Un infortunio ancora più serio e/o delle lesioni irreversibili, che rimarranno tutta la vita». Il discorso è differente quando si tratta di problemi neurologici, com’è successo a Cyprien Sarrazin. Dopo l’intervento non si possono escludere complicazioni di natura motoria. «Non sappiamo infatti se potrà tornare a camminare in modo disinvolto e avrà lo stesso equilibrio», rincara Albasini.
La Federazione internazionale spera di accrescere ulteriormente la sicurezza, imponendo ad esempio l’utilizzo dell’airbag nelle discipline veloci. Una discussione sfociata in una bufera di neve già «a inizio anni 2000, quando Silvano Beltrametti subì la frattura della colonna vertebrale toracica e una paralisi totale della parte inferiore del corpo. È vero che può limitare nei movimenti, qualora dovesse aprirsi (in modo involontario) come successo a Marco Odermatt nella libera di Bormio, potrebbe inoltre aumentare la resistenza, ma bisogna tutelare la salute dell’atleta». Dominik Paris, Gut-Behrami e Vincent Kriechmayr sono contrari a qualsiasi tipo d’imposizione, Michelle Gisin ha invece cambiato idea. Una scelta personale, secondo Kevin, poiché «utilizzare attrezzature di cui non si è pienamente sicuri può influire negativamente sulla fiducia. Affrontare una discesa senza ‘sufficiente’ convinzione nei propri mezzi, può aumentare la probabilità di cadere». Rientra nello stesso discorso il casco integrale, che «rischia di limitare mobilità e visuale diminuendo ad esempio la possibilità di anticipare il terreno». È stato alzato un polverone anche sulle protezioni tibiali, concepite in modo da evitare infiammazioni e oggi viepiù in voga fra i velocisti. Da semplici linguette in carbonio a gambaletti che attorniano il polpaccio. «Non migliorano solo il benessere personale, bensì offrono benefici a livello di prestazione. La distribuzione uniforme del carico implica una minore perdita di forza nel trasferimento fra tibia e scarpone in fase di curva, rendendo di conseguenza lo sci più aggressivo». Un’altra innovazione tecnica, meno recente ma piuttosto diffusa, sono i cosiddetti spoiler. Ossia dei cunei – di vari spessori – che riducono «il margine di movimento dello stinco nella scarpa e aumentano il carico sulla parte anteriore. Queste soluzioni possono rivelarsi un’arma a doppio taglio poiché, in caso di arretramento, acutizzano la pressione anche sul posteriore dello sci rendendolo più aggressivo in momenti in cui potrebbe risultare indesiderato. Tutte decisioni che richiedono un delicato equilibrio fra ricerca della performance nonché tutela della propria salute», evidenzia lo sciatore di Cugnasco.
Il rientro alle competizioni di Lindsey Vonn ha pure fatto scorrere fiumi d’inchiostro. Chi bendisposto e chi ostile, il Circo Bianco (e non solo) si è affrettato a proferire sentenze. Il corpo rotto e irreparabile della campionessa statunitense, come lei stessa l’aveva chiamato a ‘fine’ carriera, sembra finalmente aver trovato una cura. Una protesi fatta in titanio che non comporta benefici rispetto alla concorrenza, bensì risulta molto più rischiosa secondo Albasini. La 40enne ha lavorato parecchio così da recuperare la forza e la potenza necessarie a gareggiare. Già laceratasi due volte il crociato anteriore, l’articolazione del suo ginocchio non è tuttavia più equiparabile a quella «di un’atleta di 20 anni. Perciò sta mettendo a repentaglio la propria salute. La discesa comporta pressioni e colpi – vedi lunghezza e/o altezza di salti e curve – su femore, tibia e patella. Ciò implica una precoce usura della protesi e il conseguente rischio di scollamento». Nel fine settimana di Cortina, tracciato che ormai conosce alla perfezione, ha ribadito di essere competitiva ruzzolando però due volte a terra in zona Rumerlo. «Questo dispositivo può durare circa 20 anni, addirittura 30, a seconda di molti parametri come l’uso dell’arto. Fra la protesi e l’osso c’è quello che in gergo viene chiamato il cemento. Non bisogna però dimenticare che il materiale in cui è realizzata è un metallo rigido e che l’osso è in continuo rimodellamento. Più elastico, insomma. Uno squilibrio a cui dobbiamo aggiungere il carico emesso da una discesa e dalle sessioni di allenamento, che a lungo termine deteriorano la protesi. La scelta rimane dell’atleta, ma pure io avrei sconsigliato a Vonn di ritornare alle competizioni perché troppo pericoloso. Non sappiamo cosa potrebbe succedere in seguito a una caduta rovinosa: in alcuni pazienti osserviamo che il dispositivo regge, ma sono femore o tibia che possono fratturarsi. È difficile giudicare il suo caso, visto quanto elencato sopra», conclude Albasini. Ex campioni del calibro di Bruno Kernen e Sonja Nef, che hanno aspramente criticato l’americana, sono ricorsi anche loro alla chirurgia senza più tornare a gareggiare. Il nodo è «se, dato un eventuale infortunio, la sua gravità possa essere influenzata dalla presenza di una protesi o meno... Vonn, seguita da una comunità scientifica, merita comunque di essere ringraziata perché consente di rispondere a tutte queste domande», chiude a sua volta Kevin. Il passato, il presente, il futuro. Una battaglia fra generazioni, riunite sulla medesima pista, che rispecchia i migliori colossal hollywoodiani.