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Applausi, fischi e annotazioni a sipario chiuso

Dopo il trionfo iridato argentino, Gianni Montieri – poeta e scrittore italiano amante del calcio – ci racconta in esclusiva il suo Mondiale

20 dicembre 2022
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Durante il Mondiale di quattro anni fa, disputatosi in Russia, ricordo a un certo punto d’aver detto che il fatto che non ci fosse l’Italia mi stava facendo godere di più la manifestazione, e ho aggiunto: esperienza da ripetere. Ho riso molte volte di e con me stesso ripensando a quella battuta, che è stata previsione e poi sentenza, ma che in fondo nascondeva un desiderio. Una parte di me, quella che più ama il calcio – lo spettacolo che si dispiega sul campo – sogna di non tifare, sogna di guardare una partita per quella che è, una possibile rappresentazione della bellezza. Se non tifi, lasci indietro l’ansia, che certe volte è pure angoscia, e sei libero di sederti a osservare, qualche volta a giudicare, ma soprattutto sei libero di attendere che la bellezza si manifesti. E la bellezza è il gesto, il colpo di tacco, la rovesciata, il tiro che finisce nell’angolino. Mi sono ritrovato, perciò, a guardare il Mondiale di quest’anno con lo stesso spirito. Ci sono arrivato però con maggiore difficoltà, nell’ultimo anno, viste le storie di sfruttamento, di morte, di diritti negati che conosciamo, ho pensato a lungo di non guardare nemmeno una partita, sperando di averne la forza. Forza che non ho avuto. Non sono Cantona, anche se non mi sarebbe dispiaciuto esserlo e giocare per il Manchester United.

Meglio senza l’Italia

Perciò, a pezzi, a morsi, a tratti, questo Campionato del mondo l’ho seguito con attenzione. Intanto ho avuto la conferma che se l’Italia non c’è, è meglio, puoi sceglierti qualcun altro da tifare, cambiarlo se è il caso, sostituirlo con la prossima squadra il cui numero 7, o 9, o 3, dal cognome impronunciabile l’ha messa, come se niente fosse, all’incrocio dei pali. Per affetto verso un’area del Sudamerica, riverso passione e aspettative sul pallone che scorre lungo il Rio de la Plata, con il cuore spartito tra Montevideo e Buenos Aires. Città che amo, alle quali penso spesso, che spero di tornare a visitare. Si tratta di stati d’animo, di modi di pensare, di gente che riconosco come mia, di odori. Si tratta poi di questioni letterarie, le mie scrittrici e scrittori preferiti vengono quasi tutti da quelle parti. Non so ballare il tango, ma non si può mai dire che prima o poi non impari.

Sto divagando, pronti via e mi concentro sull’Uruguay, sapendo di sprecare tempo e cuore, è stata una delle squadre più deludenti, ed è così da anni. Suarez e Cavani hanno quasi esaurito il loro tempo e non l’hanno quasi mai vista. Valverde da solo poteva fare ben poco, poi ci sono altri buoni calciatori, ma insomma niente di che. Resterà nella memoria il video che ha creato la Federazione uruguaiana per raccontare i convocati, cosa romantica e inutile. Pronti via e l’Argentina perde con l’Arabia, Messi non ne azzecca quasi nessuna, pesca a ripetizione Lautaro in fuorigioco. Mah, ho pensato, ma poi verranno fuori alla distanza: e pian piano, in qualche modo, è andata così.

Inni non cantati, fasce di capitano arcobaleno non indossate – mi permetto di dire che Maradona avrebbe indossato perfino nei capelli una fascia arcobaleno se la Fifa lo avesse impedito – inginocchiamenti, ragazze iraniane con i capelli al vento, striscioni, tifosi veri, tifosi finti, calciatori che ballano in mezzo al campo con la mamma, portieri che mettono i guantoni con cui hanno parato ogni cosa ai figli, bambini figli di un calciatore che consolano un fenomeno di un’altra squadra in lacrime, calciatori di una squadra che sfottono (dopo averli eliminati) i calciatori dell’altra squadra, il calciatore più forte del mondo che in pratica dice: "Cazzo guardi?", citando senza saperlo una battuta di Paolo Rossi (non il centravanti, il comico). In mezzo a tutto questo il pallone che rotola, un giocatore che ti sorprende, un altro che stavi aspettando, uno che scegli come tuo calciatore del presente e del futuro, uno che si chiama Bellingham.

Un altro che si chiama Aboubakar e gioca nel Camerun e fa un pallonetto che toglie il fiato a te, alla Serbia, al pianeta. Uno che si chiama Griezmann ed è francese, che non ti ha mai entusiasmato e che gioca un Mondiale grandioso (finale esclusa) a metà tra Platini (non enfatizzo) e Mario Rui (e non sto scherzando). Un altro francese che si chiama Giroud che fa il Giroud (finale esclusa), solo che prima non se ne era accorto nessuno. Uno che si chiama Kane, e ammiri molto, spedisce un rigore in paradiso tra le braccia di Elisabetta II, e vorresti abbracciarlo.

Non c’è più religione?

La Spagna che perde col Marocco, tua moglie ti dice: "Non c’è più religione", tu che ribatti che non c’è più Iniesta, e un amico ti fa notare (ma in fondo lo sapevi) che state dicendo la stessa cosa, e ci saremo sposati per qualcosa. Modric nei panni di Modric in tutto il Mondiale e in quelli di Shingo Tamai quando (proprio contro il Giappone) tenta il tiro alla sottomarina. En-Nesyri, attaccante marocchino, che segna di testa volando ad altezza Cristiano Ronaldo, proprio quando gioca contro di lui, allora una religione c’è. Ziyech segna con un tocco di classe, da trenta metri e più al Canada, allora una religione c’è. Quanti chilometri sono dal Marocco al Canada? Calcoliamoli in pallonetti. E c’è pure un’altra religione, quella di Messi che fa l’assist per il primo gol dell’Argentina all’Olanda in maniera unica e sua, per la millesima volta, mentre guarda di là, e allora cos’è se non una specie di rosario? (sorvoliamo sul fatto che sia nato a Rosario). Uno che si chiama Mbappé, tra poco il miglior calciatore del mondo, che è inarrestabile e che non è simpatico, ce ne faremo una ragione. Uno che si chiama Thiago Silva, di lavoro difensore, fa l’assist più bello del campionato, lo fa per Richarlison contro la Corea: le statistiche dicono che sia il più vecchio a fare un assist ai mondiali, per ora. Cristiano Ronaldo se ne va piangendo e pare non saperlo fare, Ronaldo che per la prima volta nella storia mi è simpatico, ve ne farete una ragione. I quattro Kim della Corea, fa già ridere così.

Il potere della bellezza

Ma dicevo della bellezza, eccola, insondabile, inattesa, meravigliosa. Secondo tempo della semifinale Argentina - Croazia, accade l’incanto, accade (di nuovo) Messi. Un’azione bellissima che ho già riguardato una trentina di volte. Non c’è un momento – da quando l’argentino prende palla sulla fascia al gol di Alvarez – che non sia degno di memoria. Perché non parliamo di una finta, di un controllo, di un’accelerazione, di un passaggio.

Parliamo di movimento del corpo che accelera e rallenta, che cambia piede, che ruota, s’arresta, finge di ruotare di nuovo e poi, infine, ruota davvero fino in fondo, andando a scivolare e a resistere, all’inutile ritorno del povero Gvardiol (che doveva essere – fino a un’ora prima – il difensore del futuro ed è sembrato un ragazzino all’oratorio), fino alla linea di fondo, a quel punto la danza si ferma, il pallone si stacca dal piede e dice al giovane centravanti: segna.

L’azione esiste, passo dopo passo, nella sua verità e negazione, è più controllo che rapidità, più sapienza che istinto, è più invenzione che realtà, è sospensione del tempo ed è talento dal primo all’ultimo tocco. Tutto qui, tutto quello di cui abbiamo bisogno. Ne è valsa la pena. Poi Mbappé, due lampi, due singole cose, contro il Marocco, tra sporco e classe pura, tra guizzo e destino. Due lampi che significano due gol della Francia e arrivederci Marocco, è stato molto bello. Soprattutto nell’azione che porta alla seconda rete, il numero dieci fa una cosa maradoniaca, messianica, zidaniana, ronaldiana (nel senso brasiliano), ecco, soprattutto ronaldiana, fa una cosa mbappéiana, che traduciamo così: giravolta con tocco prezioso di esterno prima di dare palla a Thuram, suggerimento per il successivo passaggio, a palla ricevuta finta per saltare il primo avversario (fase 1), dribbling strettissimo e rapidissimo per saltare secondo e terzo avversario (fase 2), tentativo forse di tiro che diventa assist minimamente sporcato (fase 3). Incredibile ma vero, ne è valsa la pena anche stavolta. Due azioni, due cose che si avvicinano alla poesia migliore, quando vogliamo accostarla a quello che accade sul campo da calcio, e noi la accostiamo, senza timore, senza paura.

Versi e pallone

L’immenso poeta cileno Nicanor Parra una volta ha scritto: "Il poeta non rispetta la sua parola / se non cambia i nomi alle cose", giocatori come Messi, Mbappé e pochi altri cambiano i nomi alle cose del pallone ogni volta, ridefinendo il campo del possibile, spostandolo più in là, concedendo al margine una maggiore ampiezza. Rendono di nuovo possibile il respiro, dopo avercelo tolto per qualche istante.
E poi la finale e di nuovo loro due, ma non solo. Chi ha visto sa di aver guardato la finale forse più incredibile di sempre all’interno del Mondiale più assurdo. Gli emiri vanno alla cassa, Messi che solleva la coppa è la ricompensa che hanno preteso, aspettato, ottenuto. Quanti giocatori potranno dire – da qui a sempre – di aver fatto tre gol in una finale dei Mondiali e di averla perduta? Chissà, intanto Mbappé – nella serata di Leo Messi – ha dimostrato di essere pronto per il passaggio di consegne, e l’argentino a questo punto può sfilare di lato in tutta serenità. È il più grande degli ultimi trent’anni, uno dei più forti di tutti i tempi, ha vinto ogni cosa si potesse vincere. Dio, però, o chi per lui avrebbe dovuto risparmiarci la visione di Messi che solleva la coppa con la mantellina passatagli dall’emiro, non una bella scena, così come ci ha concesso il privilegio di vederlo giocare.

L’impronta del Fideo

Stando sulla partita, il primo tempo di Di Maria è forse quello che ha deciso tutto, ha procurato il rigore e ha segnato il secondo gol dopo un’azione spettacolare, un contropiede da urlo. Quando è stato sostituito ha pianto quasi tutto il tempo, a ogni errore dei suoi, a ogni gol di Mbappé. Restando sulla bellezza, anche il secondo gol della Francia è un incanto, mi piacerebbe sapermi coordinare così ogni volta che la vita si fa difficile. L’Argentina è stata squadra, la Francia è stata quasi soltanto Mbappé, perfino nei rigori finali. Questa è la differenza. "C’è, nell’attesa, / una voce di lillà che si spezza", ha scritto la poeta argentina Alejandra Pizarnik. Per Leo Messi la voce di lillà si è spezzata alcune volte, ora l’attesa si è compiuta. Nella stessa poesia, Pizarnik apre: "Stanno le mie voci al canto / perché non cantino loro"; non ce ne voglia, ma stasera le voci al canto sono quelle di un ragazzo di Rosario.

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