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Hugo Koblet, pédaleur de charme

Cadono oggi i cent’anni dalla nascita della prima vera superstar di un ciclismo ancora eroico, morto trentanovenne in un misterioso incidente d’auto

In sintesi:
  • Lo zurighese Hugo Koblet, di cui oggi cade il centenario della nascita, nel 1950 fu il primo non italiano a vincere la Corsa rosa, e l'anno seguente trionfò al Tour de France
  • Raffinato, elegante e fotogenico, divenne un atleta molto ambito dagli sponsor, che lo coprirono di soldi ma che pure lo spinsero ad abusare di sostanze nocive
  • Morì trentanovenne in un incidente d'auto, e molti ancora oggi credono che si sia trattato di un suicidio, anche perché da tempo l'ex campione aveva smarrito la serenità
21 marzo 2025
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Non si fosse schiantato in macchina a 39 anni – e ovviamente se la fortuna avesse posato a lungo su di lui il proprio occhio benevolo – oggi avrebbe soffiato su 100 candeline lo strepitoso Hugo Koblet, ciclista dell’epoca eroica, ma ancora ai giorni nostri considerato fra i più grandi sportivi svizzeri di tutti i tempi. Classe, glamour, successi e condotta di vita non certo banale ne fecero infatti un idolo che nessuno, malgrado la patina dei decenni che inesorabilmente scorrono, ha mai più dimenticato.

Pedalatore fra i più vincenti della sua epoca – ma capace pure di travalicarla per inserirsi comodamente nel novero dei più grandi di sempre – sarebbe stato interessante vedere come l’avrebbe ricordato, in quest’occasione, un gigante del ciclismo narrato come Gianni Mura, il quale però non è più con noi, essendosene andato, guarda il caso, proprio il 21 marzo, cioè come oggi, di cinque anni fa. «Mura è stato un maestro di improbabile emulazione», scrisse il giorno seguente il suo collega Roberto Beccantini. «Come diceva Camus, chi scrive in modo chiaro ha lettori, chi scrive in modo oscuro ha commentatori. Mura aveva lettori, valanghe di lettori, perché scriveva chiaro e forte».

A cantarne le gesta dalla fine degli anni Quaranta – e per almeno un decennio – fu invece un altro Gianni, vale a dire Brera, che nel 1950, quando Hugo divenne il primo non italiano in assoluto a vincere il Giro, esortò i colleghi giornalisti a non definirlo ‘straniero’. Non che l’Arcimatto volesse – come spesso gli capitava coi migliori atleti al mondo – trovargli lontane origini lombarde per spiegarne la grandezza: semplicemente intendeva ricordare che, nello sport, a regnare fosse la fratellanza e l’eguaglianza, un concetto che, in quegli anni appena successivi alla Seconda guerra mondiale, pareva urgente ribadire a gran voce. La stampa del Belpaese, invece, aveva reagito malissimo – come a un reato di lesa maestà – al trionfo di quello svizzero spuntato quasi dal nulla a rompere le uova nel paniere tricolore.

Tutto, infatti, era stato apparecchiato affinché gli appassionati italiani potessero assistere all’ennesima lotta fra Coppi e Bartali, idoli che coi loro trionfi – si dice – avevano contribuito, in quegli anni di confusione dopo l’infame Ventennio fascista, addirittura a scongiurare una guerra civile. Preferibilmente, dato che il 1950 era pure Anno santo, a imporsi quella volta nella Corsa rosa avrebbe dovuto essere Bartali, uomo di fede conclamata e devoto di Santa Teresa del Bambin Gesù, di cui si portava sempre appresso, anche in gara, un’immaginetta. Per l’occasione, addirittura, il papa – che era Pio XII – avrebbe per la prima volta ricevuto il vincitore della Maglia rosa, e nessuno sarebbe stato più adatto del campione toscano per una cerimonia di quel tipo. E invece, come detto, a presentarsi davanti al pontefice fu uno svizzero, e per giunta calvinista. Uno straniero, dunque, e qui il pensiero – per immediata e curiosa associazione di idee – torna di nuovo al già citato Albert Camus, che intitolò appunto Lo Straniero uno dei suoi capolavori e che, proprio come Koblet, morì andando a sbattere contro una pianta a bordo dell’auto guidata dall’editore Gallimard, anch’egli perito nell’incidente.

Garzone fornaio

Zurighese, orfano di padre, Hugo cominciò prestissimo a lavorare nella panetteria di famiglia, per la quale – in sella a una bici – faceva le consegne a privati, ristoranti, negozi, mense scolastiche, cantieri. Fu proprio nel corso di quelle corvée che sviluppò un’incontenibile passione per il pedale. A notare per primo in lui il talento fu l’ex campione svizzero Léo Amberg, che dapprima gli offrì un lavoro part-time nella sua bottega da ciclista e poi gli dette la possibilità di correre in pista, dove si disimpegnò con un certo successo. Passato presto alla strada, dove si confermò un talento su cui puntare, appena ventenne divenne professionista e, due anni più tardi, vinse la sua prima gara, una tappa del Tour de Suisse in cui staccò di prepotenza gente come Kübler, Bartali e Coppi, che a quei tempi dominavano il palcoscenico internazionale.

A intuire le enormi potenzialità di Koblet fu Learco Guerra – la leggendaria Locomotiva umana degli anni Trenta – che lo ingaggiò nella squadra da lui diretta proprio per disputare il Giro d’Italia del 1950. Fu il 29 maggio a Locarno, quando vinse la frazione che era partita da Torino, che il mondo si accorse davvero di Koblet: quel trionfo non fu però sufficiente a conquistare la maglia rosa, che da cinque giorni era di proprietà di un altro svizzero, vale a dire Fritz Schär. Riuscì a strappargliela un paio di giorni dopo, al termine dell’ottava tappa, e non la mollò più fino a fine corsa, che quell’anno (santo, come detto) si chiudeva proprio a Roma.

Nelle settimane seguenti Hugo fece suo anche il Tour de Suisse, che a quei tempi era una manifestazione importantissima. Del resto, per il nostro ciclismo era davvero un’epoca dorata: a salire sul più alto gradino del podio del Tour de France, in quella stessa estate del 1950, fu non a caso un altro zurighese, cioè il grandissimo Ferdy Kübler, più vecchio di sei anni e già attivo da prima della Guerra. E pure la stagione seguente, anno di grazia 1951, per le due celebri K dello sport elvetico la vendemmia risultò abbondante e di ottima qualità: Kübler si laureò campione del mondo in linea a Varese, servendo un nuovo enorme dispiacere agli italiani, mentre Hugo succedette a Ferdy nell’albo d’oro della Grande Boucle.

Koblet ipotecò quel Tour il giorno in cui la carovana si spostava da Brive-la-Gaillarde ad Agen, conducendo una fuga solitaria di quasi 150 km e chiudendo la tappa con 3’35” sui più vicini degli inseguitori, fra cui spiccavano i cognomi nobili di Magni, Bobet, Coppi, Geminiani e Bartali. Fu quel giorno – vedendolo estrarre di tasca una spugnetta per togliersi la polvere dal viso e un pettine per rassettarsi prima di tagliare il traguardo – che la stampa francese lo definì Pédaleur de Charme, nickname che poi lo accompagnò per l’intera carriera, che si chiuderà nel 1958, quando trentatreenne conquistò il suo ultimo successo al Criterium di Locarno.

Bello come un attore

Eleganza mista a forza, leggerezza accompagnata da acume tattico: così pedalava Hugo Koblet, che suo malgrado era amato e ammirato più per il suo bell’aspetto che per la sua indubbia classe in sella. I capelli biondi e gli occhi chiari sopra un sorriso da cinematografo, infatti, fecero innamorare di lui schiere di tifose, attrici e fotomodelle, alle quali pare che il campione si concedesse volentieri. Ma, soprattutto, la sua indiscutibile fotogenia attirò sempre l’interesse degli sponsor, che certo lo coprirono di soldi e che, di fatto, lo fecero diventare il primo ciclista superstar della storia. Ma che, allo stesso tempo, da lui pretendevano sempre di più, sempre più fughe solitarie e sempre più arrivi a braccia alzate sotto lo striscione del traguardo.

E lui, che non sapeva mai dire di no – specie alla grana – non si fece scrupoli a ingurgitare quantità inimmaginabili di medicinali d’ogni genere e stimolanti, soprattutto amfetamine: tutta robaccia che finì per minargli il fisico, specie i polmoni, che infatti gli dettero seri problemi negli ultimi anni di professionismo. Stando soltanto ai risultati ottenuti, i pubblicitari avrebbero dovuto – più che su Koblet – fiondarsi su Kübler, ciclista senz’altro più vincente. Il vecchio Ferdy, però, aveva un enorme e imbarazzante naso aquilino, certamente più adatto a bozzetti e caricature che alle foto commerciali, e così – pur non disdegnandolo del tutto – gli preferirono sempre Hugo, che pareva un attore.

E fu proprio grazie ai suoi magnetici tratti somatici, uniti a una innata signorilità, che Enrico Mattei in persona – all’epoca numero 1 dell’Agip, principale azienda petrolifera italiana – propose a un Koblet appena sceso di sella di trasferirsi in Venezuela per diventare laggiù il principale testimonial del marchio. Hugo accettò, e varcò l’Atlantico in compagnia della sua novella sposa – la celebre modella Sonja Bühl –, bellissima e parecchio più giovane di lui. La vita a Caracas era piacevole – ai tempi il Paese era fra i più ricchi al mondo – e Koblet, che aveva molto tempo libero, laggiù divenne bravissimo nel tennis e nello sci nautico.

Una fine triste

Qualcosa però dentro di lui si era rotto, forse a causa di un matrimonio che presto smise di funzionare come avrebbe dovuto. Rientrato in Svizzera dopo un paio d’anni per assecondare il volere della consorte – e credendo forse che il rimpatrio avrebbe dato nuova linfa alla relazione – prese in gestione, sempre per l’Agip, la stazione di benzina del mitico velodromo di Oerlikon. Il mondo delle due ruote, ad ogni modo, lo reclamava, e così divenne dapprima per breve tempo commissario tecnico degli stradisti elvetici e poi commentatore radiofonico, soprattutto come spalla di Marco Blaser, che anni dopo lo definì una seconda voce molto tecnica nelle sue analisi, in grado di fornire letture e valutazioni intelligenti.

Chi gli stava vicino, però, notava che Hugo in quegli anni non era felice: il rimpianto per una carriera priva dei successi che avrebbe meritato ma che non erano giunti, la delusione per essersi fatto portar via un bel po’ di franchi da chi si professava amico ma altro non era che un ladro – e soprattutto il contraccolpo di un matrimonio finito in divorzio – avevano gettato alcune pesanti ombre sulla vita di Koblet. Ed è probabilmente per questo motivo che – quando il 2 novembre del 1964 la sua potente Alfa Romeo bianca andò ad abbracciare un platano in mezzo alla campagna di Mönchaltorf, presso Uster – qualcuno, più che alla fatalità, pensò a un suicidio. Sull’asfalto, del resto, la polizia non rilevò alcun segno di frenata o di sterzata. Come molti idoli, morì giovane e tragicamente, proprio come Fausto Coppi o James Dean, al quale per un’innegabile somiglianza veniva spesso paragonato.