Calcio

Messi, mes che un calciatore

L'addio al Barça dell'argentino sgretola quella che pareva una delle sole certezze di mercato

La fine di un'era (Keystone)

E così è arrivato un momento che pareva non dovesse mai arrivare. Il rinnovo di Messi sembrava una delle poche certezze dell’ultima sessione di mercato. L’addio dell’odiato Bartomeu e il ritorno di Laporta, il presidente dietro l’esplosione di Messi e degli altri straordinari talenti della Masía che lo circondavano, sembravano la garanzia più forte sul matrimonio tra l’argentino e il Barcellona. Altri segnali cospiravano in quella direzione: l’arrivo di un suo pretoriano come Agüero, la serenità ritrovata con il trionfo in Copa America, una generazione di giovani – Pedri, Moriba, Ansu Fati – con caratteristiche perfette per potenziarlo nei suoi ultimi anni di carriera. Invece, nel pomeriggio di giovedì è svanito tutto. Un comunicato ufficiale del Barcellona ha messo fine alle speranze dei tifosi blaugrana. Su Twitter, una clip di sette minuti ha raccolto tutti i momenti di sospensione dell’incredulità che ci ha regalato negli ultimi quindici anni.

Difficile pronosticare il futuro di Messi. Magari andrà al Psg, dove ritroverebbe Neymar, uno dei suoi migliori amici, ma anche uno dei suoi rivali più sanguinari, Sergio Ramos, che finalmente smetterebbe di provare ad azzopparlo come faceva a ogni Clasico. Prima di pensare alla prossima stagione, è impossibile non guardarsi indietro, non ripensare alla grandezza di Messi e al suo lascito, al modo in cui ha cambiato per sempre la storia del Barcellona. Basti pensare a una statistica: negli scontri diretti tra Real Madrid e Barcellona, prima dell’esordio della Pulga lo score recitava ottantasette vittorie dei blancos contro le sessantasei dei catalani; dopo Messi, il punteggio è quasi alla pari, con novantasei vittorie del Barça e novantasette del Madrid.

Avere Messi, per il Barcellona, significava partire da favoriti in Liga e – almeno fino a qualche anno fa – in Champions. Un bug del sistema di cui ci eravamo accorti a Stamford Bridge, in una fredda notte di Champions del febbraio 2006, ad appena diciott’anni: nella gara d’andata degli ottavi, fuori casa, contro una delle squadre più forti d’Europa e su un terreno a dir poco accidentato, Messi era diventato l’incubo del povero Del Horno, allora terzino sinistro dei blues.

L’evoluzione di Messi e le trasformazioni del Barça

Messi allora era un’ala destra dribblomane, tra le prime a giocare a piede invertito. È il primo ruolo della sua carriera, quello più funzionale per sfruttare la sua peculiarità più evidente: una capacità di saltare l’uomo irripetibile. In quella stessa posizione vince il primo pallone d’oro, al primo anno con Guardiola. Il Barcellona 2008/09 non è di certo il più forte del ciclo di Pep, ma forse è quello dotato della maggior potenza di fuoco, con Eto’o al centro dell’attacco e l’ultimo grande Henry sulla sinistra. Messi si occupa soprattutto di saltare l’uomo e finalizzare. Non copre ancora le porzioni immense di campo a cui ci ha abituato. Sulla destra però sviluppa una simbiosi particolare con Dani Alves, uno dei binomi migliori della storia del calcio, con un talento immenso per l’improvvisazione.

Alla fine di quella stagione, però, Guardiola pensa a una nuova sistemazione per il suo numero dieci. Succede tutto in quello storico Madrid-Barcellona 2-6: Messi si sistema da falso nove, così da portare fuori posizione i difensori centrali avversari e favorire i tagli di Eto’o ed Henry alle loro spalle. Il rombo composto dall’argentino e dal terzetto Xavi-Busquets-Iniesta non perde mai la palla. Il Barcellona vive la sua epoca d’oro, un dominio che sembrava non dovesse finire mai, chiuso da una semifinale più che sfortunata contro il Chelsea nel 2012.

Con l’addio di Guardiola e la malattia di Vilanova, il Barcellona si allontana sempre di più dai suoi principi. Cambia anche la dirigenza: al posto di Laporta arrivano prima Rossell, poi Bartomeu. Il Barça, più che un club edificato su una solida idea di gioco – il juego de posición, che non è tiqui taca – diventa un’orchestra di fuoriclasse, una nuova rotta sintetizzata nella sigla MSN. È il 2014/15, primo anno di Luis Enrique: Messi, castrato da falso nove senza il sistema di Guardiola, ritorna sulla fascia destra. L’interpretazione, però, è del tutto lontana da quella delle origini. I dribbling rimangono l’ossatura del suo gioco, ma la quantità di funzioni svolte in campo è difficile da enumerare: se Xavi non è più in grado di giocare da titolare, ci pensa Messi a fare da Xavi, con Rakitic che si sposta per farlo abbassare a centrocampo; se Neymar ha bisogno di esaltarsi con i suoi dribbling, allora Messi viene dentro al campo per cambiare gioco sul brasiliano e regalargli un isolamento. Messi interviene sempre di più, le sue mappe di calore, tra gli strumenti statistici con cui proveremo a spiegare la grandezza dell’argentino, diventano immense.

Dani Alves una volta aveva parlato della tendenza di Messi a estraniarsi dalla gara: «Io provavo sempre a scambiare con Messi, ma Guardiola si arrabbiava. Un giorno gli dissi che non accettavo le sue ragioni. Se Messi passa due minuti senza toccare la palla, si disconnette dalla partita. (…) Così lo tenevo connesso con noi. Guardiola mi disse che avevo ragione». Anche quei momenti in cui sembra camminare senza scopo, così tipici del Dieci, però, con le stagioni hanno acquistato senso: Messi scandaglia il campo per capire di cosa la squadra ha bisogno e dove intervenire.

L’argentino è diventato di per sé un sistema di gioco, da stella si è trasformato in galassia. Le sue spalle sono diventate sempre più larghe e sono state in grado di sorreggere i disastrosi anni di presidenza Bartomeu. Il Barça continuava a depauperarsi, dal punto di vista gestionale e tecnico, ma poteva permettersi di vivacchiare senza idee troppo chiare: sul campo, tanto, Messi avrebbe dato senso a qualsiasi progetto, persino a giocatori evidentemente inadeguati come il brasiliano Paulinho. Ai catalani è bastato avere Messi per mantenersi costanti in campionato e aggiudicarsi la Liga nelle prime due stagioni di Valverde, la 2017/18 e la 2018/19.

Gli ultimi mesi di serenità

In Champions, però, non poteva bastare: i martedì e i mercoledì hanno messo in mostra tutti i problemi strutturali di una dirigenza allo sbando. Il Barcellona, con una rosa costruita in maniera dissennata, ha iniziato a subire attacchi di panico nelle partite che neanche il talento di Messi ha potuto evitare. Così, dopo la rimonta di Roma è arrivata quella di Liverpool, seguita dalla disfatta col Bayern. Bartomeu e gli altri dirigenti non hanno saputo approfittare del momento di maggior saggezza di Messi. L’argentino, così, è diventato il simbolo della ribellione contro una dirigenza pronta in qualsiasi istante a barattare i valori di quello che ama definirsi Mes que un club. Messi, consapevole di essere più di un giocatore, non ci ha pensato due volte a esporsi: «Da tempo non c'è un progetto credibile, si va avanti con inutili espedienti e si tappano buchi navigando a vista».

Dopo l’8-2 contro il Bayern, il Barcellona aveva pensato di ripartire da una figura familiare come Koeman. Non una scelta rivoluzionaria, come si richiederebbe in questi casi. L’olandese, però, ha regalato a Messi un’ultima stagione tranquilla sul campo, pur senza titoli in bacheca. Il Barcellona, per la prima volta dall’esplosione del suo fuoriclasse, è partito in Liga senza i favori del pronostico. I blaugrana hanno chiuso terzi, ma hanno regalato sprazzi di grande calcio, con i giovani finalmente in campo e pronti a parlare lo stesso linguaggio del loro leader. Messi sembrava giocare con la serenità del padre di famiglia, raccoglieva i suoi ragazzi intorno a sé e distribuiva il pallone, per poi farselo ridare, sul corto come piace a lui. Messi ha giocato con gioia, anche nell’eliminazione contro il Psg, dove nonostante il rigore sbagliato ha ricordato quanto poco basti per far diventare la sua squadra all’altezza delle migliori.

Dal primo luglio, però, il contratto è scaduto. Messi, così, è diventato un bene pubblico, ufficialmente il giocatore di tutti. O, se vogliamo, solo un giocatore della nazionale argentina. È incredibile pensare che abbia vinto il suo primo grande torneo con la nazionale proprio quando ha smesso di vestire la maglia blaugrana. Un po’ come se la Gioconda fosse uscita dal Louvre per essere esposta all’aperto, per chiunque si volesse nutrire del suo splendore.

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