BASKET

Le numerose stelle cadenti della Nba

Pippen, Rodman e Iverson sono soltanto i più celebri fra i moltissimi giocatori finiti sul lastrico dopo aver guadagnato fortune incalcolabili

25 agosto 2022
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Il recente caso di Delonte West – finito sul lastrico, vittima di dipendenze e affetto da disturbo bipolare – è soltanto l’ultimo riguardante una lunghissima serie di giocatori della Nba che, una volta smesso di giocare, si ritrovano senza nemmeno un quattrino pur avendo guadagnato decine se non centinaia di milioni di dollari. Certo, il fenomeno non è circoscritto al basket americano, ma è innegabile che in quel mondo i casi di ex atleti costretti a mendicare tetto e minestra, a rubare o a delinquere in altri modi siano assai più frequenti che altrove.

Brutta fine

Buon giocatore dei Boston Celtics e dei Cleveland Cavaliers nel primo decennio del millennio, West iniziò presto a collezionare arresti per reati di vario tipo, fra cui il possesso di armi, ma soprattutto cadde facilmente preda di droghe e alcol. Ma anche dei medicinali, di cui ha sempre abusato, specie da quando gli vennero diagnosticati depressione e disturbo bipolare, malattie che in qualche modo spiegavano i suoi scatti d’ira verso arbitri, compagni e avversari, episodi che hanno contribuito alla prematura fine di una carriera professionistica che gli aveva comunque permesso di guadagnare, in otto stagioni scarse, un gruzzolo stimato in 16 milioni di dollari. Soldi che però, come per moltissimi suoi colleghi, si sono presto volatilizzati. E ora, a nemmeno 40 anni, Delonte West fra un ricovero e l’altro nelle cliniche psichiatriche è costretto a chiedere la carità, vestito di stracci, agli angoli delle strade di Houston, in Texas, con tutto ciò che ne consegue: pestaggi, arresti, freddo cane, risse con altri disperati per un tozzo di pane, parassiti e altre mille malattie.

Dati preoccupanti

Come detto, il novero di cestisti finiti male è nutrito assai. Si calcola che oltre il 50% dei giocatori Nba finisca in bancarotta nei primi cinque anni dopo il termine della carriera agonistica: è un numero enorme, si stenta a crederlo vero, ma a dirlo è Forbes, che di quattrini se ne intende. E un’inchiesta condotta pochi anni fa da Sports Illustrated – Bibbia della stampa sportiva statunitense – rivelò che nel football americano il tasso di chi si ritrova al verde entro due anni dopo il ritiro era del 35%, una bella cifra pure questa. E fra loro, benché paia impossibile, ci sono stelle di primissima grandezza.

Nomi illustri

Ecco, limitando l’orizzonte alla pallacanestro, qualche esempio significativo. Vin Baker, idolo di Seattle, prima di ritrovarsi a lavare i cessi chez Starbucks riuscì a bruciarsi cento milionazzi. Meglio ancora fece Antoine Walker, che in carriera mise da parte la bellezza di centodieci milioni, ma fu comunque capace di fumarseli tutti. Secondo sua madre, aveva una settantina di persone da mantenere: prassi piuttosto diffusa in certi ambienti svantaggiati, per via di una mentalità da clan secondo cui se qualcuno si arricchisce è tenuto a foraggiare un esercito di amici nullafacenti. Del resto, è quanto succedeva pure a Diego Armando Maradona.

Walker, ritrovatosi senza un soldo venti mesi dopo aver giocato la sua ultima partita, aveva per la verità anche qualche vizio: gioco d’azzardo e automobili tipo Mercedes, Maybach e Bentley, che comprava a mezze dozzine alla volta. In una sola sera, a Las Vegas, lasciò sul tavolo verde 700mila verdoni, mentre un’altra volta – sempre nel Nevada – venne arrestato mentre cercava di piazzare assegni scoperti ai croupier. Alla roulette e al poker rischiò parecchio pure Charles Barkley che, dopo aver perso 10 milioni, rinsavì e trovò la salvezza grazie a un network che lo ingaggiò come commentatore per le partite di basket. Del resto, si trattava di un famoso membro del Dream Team originale, la squadra più forte di ogni epoca, quella che 30 anni fa modificò per sempre la storia delle Olimpiadi e che fece della Nba un fenomeno planetario.

Suo compagno in quella formazione da sogno era Scottie Pippen, talmente bravo da far diventare ancora più forte un certo Michael Jordan, il più grande fuoriclasse che sia mai esistito. Ebbene, Pippen di milioni ne sperperò addirittura 170 – tutti in investimenti fallimentari –, 5 dei quali per un jet privato di terza mano famoso per non essere mai riuscito a decollare.

A chiedere l’elemosina finì pure Dennis Rodman, un’altra icona del basket a stelle e strisce, talmente folle che un giorno fu capace perfino di sposare se stesso. Amico intimo di Donald Trump e del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, non sa nemmeno lui come si siano volatilizzati i suoi 30 milioni: ammette soltanto di averne spesi un bel po’ in transazioni a favore dei suoi pusher di fiducia. Degna di nota è pure la prestazione di Latrell Sprewell – a oltre 90 milioni ammonta la sua perdita – celebre per i 68 turni di squalifica che gli comminarono dopo aver menato il proprio allenatore e per aver più volte minacciato, armi in pugno, i compagni di squadra. A quota 64 milioni scomparsi nel nulla troviamo Kenny Anderson, 7 figli da 5 donne diverse, detentore di un record probabilmente imbattibile: dichiarò la bancarotta già il giorno dopo essersi ritirato. Menzione speciale pure per Derrick Coleman, una prima scelta assoluta al draft: fu convinto a riversare quasi tutti gli 85 milioni che possedeva in investimenti immobiliari a Detroit, una città fallita e cadente da cui tutti scappavano. Inutile dire che si ritrovò al verde.

Altro grandissimo talento finito in bolletta è Allen Iverson, iconico playmaker dei Sixers anni 90: per anni stipendiò, non si sa bene per quale motivo, una cinquantina di "fratelli". Il resto dei 200 milioni guadagnati in carriera lo polverizzò invece in ville, vacanze esotiche e prostitute di extra-lusso, che ingaggiava a multipli di 5. Durante una causa di divorzio, in tribunale, si frugò nelle tasche, le rovesciò e disse: non ho nemmeno i soldi per un cheeseburger. Oggi non vede l’ora di compiere 55 anni, l’età in cui, secondo un antico e previdente accordo, la Reebok gli verserà altri 30 milioni di dollari. In bocca al lupo: il ragazzo è del 1975, gli mancano solo 8 anni.

Un sistema che non funziona

Brillante eccezione è rappresentata da Robert Horry, 7 volte campione Nba e poi dirigente bancario di enorme successo. Quando gli chiesero il motivo di tanti fallimenti fra i suoi ex colleghi, rispose: «Gli atleti neri come me, purtroppo, sentono di dover sempre mostrare di avere una montagna di soldi e così spendono 40mila dollari per un orologio ogni volta che escono di casa».

Il problema, infatti, nasce da lontano. La stragrande maggioranza dei giocatori dell’Nba è afroamericana, e in gran parte proviene dal ghetto, crescendo in famiglie devastate nelle periferie degradate e criminali delle grandi città, con genitori e fratelli tossicodipendenti e magari carcerati. Problematiche per le quali lo Stato ha ben poco riguardo: scuola e servizi sociali faranno anche il possibile, ma sicuramente non è abbastanza. La carriera scolastica di questi ragazzi è quasi nulla: dotati da madre natura di un talento sportivo eccezionale, viene loro consentito già da piccoli di trascurare la propria educazione.

Formalmente, approdano in Nba tutti quanti laureati, ma sappiamo bene che ai campioni sportivi i diplomi vengono in pratica regalati, perché molta gente – troppa – ha qualcosa da ricavarne. Ci sono casi famosi di atleti pluridecorati che non sanno eseguire calcoli semplicissimi e che solo a fatica riescono a scrivere il proprio nome. Tanto, si dice, non avranno difficoltà a guadagnare cataste di soldi. Vero, ma a quanto pare ne incontrano ancor meno quando si tratta di disfarsene. Ed è colpa, detto brutalmente, dell’ignoranza, che ti fa cadere nelle trappole dei falsi amici, dell’entourage succhiasoldi, dei consulenti finanziari come grandi squali bianchi. L’Nba, già da diversi anni, ha preso coscienza della situazione preoccupante e provvede a organizzare per le matricole, subito dopo il draft estivo, corsi e seminari tenuti da specialisti che, almeno in teoria, dovrebbero tenere i ragazzi lontani dai guai. Con risultati, fin qui, non troppo confortanti. Sarà una lotta dura, anche perché questi atleti – spesso già sprovvisti di solidi punti di riferimento – si rifanno a modelli culturali, come ad esempio il rap, secondo cui il valore di un uomo si misura soltanto nella quantità di soldi che può permettersi di scialacquare.

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