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In Belgio c'è un tutor per aiutare i rifugiati a lavorare

Per chi viene da altre culture, il mondo dell'impiego europeo può essere ostico: ci sono tanti non-detti. Un'associazione fornisce una soluzione.

Rozj Khann e Patrick Beauvois (Foto Dominique Duschesnes)
25 giugno 2019
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«In Afghanistan, per cercare lavoro, ci si presenta direttamente. Ti danno 2-3 giorni di lavoro e poi si va a cercare altrove. È completamente diverso qui, ti serve un diploma, un’esperienza, questo o quel contratto...».

In un impeccabile francese, Rozy-Khan Shinwari, 25 anni, racconta sottovoce i suoi problemi davanti all’indecifrabile labirinto che dovrebbe condurlo a un lavoro. Nonostante l’assistenza fornita dal Centro pubblico per l’azione sociale (Cpas) e dall’Ufficio regionale del lavoro di Bruxelles (Actiris), il giovane rifugiato, arrivato in Belgio alla fine del 2015, si è trovato in un vicolo cieco: troppe informazioni, troppi non-detti, codici che non padroneggia. Alcuni amici afghani lo hanno indirizzato a ‘Duo for a Job’, un’associazione specializzata nell’assistenza alla ricerca di lavoro attraverso un sistema di mentoring. In cinque anni, l’associazione senza scopo di lucro ha messo in contatto 1’330 giovani in cerca di lavoro provenienti da un contesto migratorio con un lavoratore senior o pensionato che conosce il mercato del lavoro belga.

«Rozy aveva già fatto molta strada», racconta Patrick Beauvois, 63 anni. Il mentore, ancora attivo nel settore assicurativo, ha preso il ragazzo sotto la sua ala per sei mesi. «Aveva un curriculum che reggeva bene, ma era troppo standardizzato. Stava facendo delle ricerche, ma non era compatibile. Abbiamo ripreso le basi: cosa vuoi fare, cosa non vuoi fare?» Quello che piace a Rozy-Khan Shinwari sono le vendite, il settore alimentare. Perché gli ricorda il paese e il negozio di suo padre, ci dice Patrick: «È importante avere dei punti di riferimento in un ambiente dove tutto deve essere ricostruito». Il giovane afghano, educato e diligente, aveva trovato lavoro per tre mesi come magazziniere. Un lavoro part-time. «Il capo era soddisfatto ma non aveva abbastanza lavoro per tenermi. Dopodiché, è stato difficile. “Scusate, non ho un diploma, ma vi assicuro che sono competente!” qui non funziona», spiega il giovane rifugiato.

In termini di esperienza, Rozy-Khan Shinwari non parte da zero. Per due anni nell’esercito, la sua paga ha sostenuto la sua famiglia quando suo padre non era più stato in grado di lavorare. È dovuto fuggire dal paese quando i talebani hanno preso suo fratello maggiore per rappresaglia e nessuno sa dove sia da allora. «Mio fratello minore è da qualche parte in Turchia, lì il lavoro è di 12 ore al giorno per uno stipendio molto basso e lui è troppo piccolo, troppo debole per questo». Da qui nasce una certa urgenza di trovare lavoro, mandare soldi a casa. «Il lavoro che ho avuto mi ha permesso di inviare denaro, ma non è sufficiente».

L’urgenza del lavoro, come ostacolo...

Paradossalmente, questa urgente necessità di occupazione è uno dei principali ostacoli alla costruzione di un piano di carriera sostenibile. I problemi sono i debiti contratti che devono essere rimborsati al più presto, una situazione stabile da mostrare alle autorità per far arrivare i propri parenti, l’agenzia interinale alla quale non si osa dire di no per paura di non essere più chiamati o semplicemente per la necessità di prendere il controllo della propria vita e riaffermare il proprio ruolo di capofamiglia dopo mesi di assistenza come richiedente asilo. Una logica di sopravvivenza “difficilmente compatibile con un processo di sostegno all’integrazione professionale duratura”, osserva ‘Duo for a job’ in un “rapporto di esperienze” pubblicato a fine febbraio.

In questo documento, l’associazione riunisce cinque anni di paziente raccolta di dati per comprendere meglio le esigenze di un pubblico marginalizzato nel mercato del lavoro belga: sottoccupato, in posizioni più precarie, più spesso a tempo parziale... Emerge una certa varietà di profili, la metà dei quali sono rifugiati, l’altra metà sono persone arrivate tramite il ricongiungimento familiare. «Dobbiamo stare attenti a non basare una politica rivolta ai “giovani con un background migratorio” come gruppo omogeneo», avverte Julie Bodson, rappresentante di ‘Duo for a Job’. Alcune sono persone qualificate, anche altamente qualificate, bloccate da un problema di riconoscimento dei diplomi e altri, analfabeti, si perdono in una società organizzata intorno alla parola scritta: «Il punto in comune è il beneficio del sostegno individualizzato», ritiene.

Con una certa competenza – il 73% dei giovani del programma ha trovato formazione o lavoro –, l’associazione sottolinea i benefici del suo sistema di tutoraggio, che risponde a due ostacoli, spesso scarsamente identificati dai giova- ni: la mancanza di fiducia in sé stessi e la mancanza di una rete. «A forza di prendere delle porte in faccia, ti chiedi cosa hai fatto di sbagliato e poi ti arrendi», dice Patrick Beauvois, che ha già accompagnato diversi giovani. «Questo è anche il ruolo di un mentore: guardare le persone negli occhi, dire loro, mostrare loro che sono competenti, che sono preziosi». Grazie al suo mentore, Rozy-Khan Shinwari ha potuto incontrare alcuni responsabili di supermercati. Ciò ha consentito una migliore comprensione del lavoro e delle aspettative dei datori di lavoro, anche se non ha dato luogo a un’offerta di lavoro. Non importa, ora ha un progetto che ha un senso: continuare i cor- si di francese per migliorarlo e poi integrare con una formazione sulla vendita. «L’orale va bene, ma è la grammatica che è ancora difficile», dice. A breve termine, il giovane, che parla Pashto, Dari e francese, spera di trovare un lavoro come interprete.

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