laR+ L'analisi

Togliete il ginocchio dal mio collo!

In America si aggira, come in Europa, un autoritarismo grossolano e tracotante che mette in pericolo i fondamenti della democrazia liberale

La preda (Keystone)

Adam Gopnik, giornalista e scrittore newyorkese, ci avverte che anche dalle sue parti, in America, si aggira, come in Europa, un autoritarismo grossolano e tracotante che mette in pericolo i fondamenti della democrazia liberale. Niente di nuovo, già lo sapevamo. Là c’è Trump che in materia di diritti civili ha inquietanti lacune e la sua interpretazione del concetto di democrazia è piuttosto disinvolta e volge al distopico: dagli ultimi messaggi mi pare di capire che i neri non godano di smodate simpatie.

Del resto anche in Europa e nel mondo il problema è noto: lo Stato di diritto è aggredito e sotto assedio e c’è chi sostiene che democrazia e libertà insieme non vanno d’accordo perché il popolo è sovrano, comanda e decide, e la sua volontà (ossia quella del leader al potere) non può essere impedita dall’esigenza di rispettare le libertà fondamentali come richiede la democrazia liberale. Tanto per capirci: in questo contesto l’articolo della costituzione federale che parla di diritti "intangibili nella loro essenza"(art. 36, c.4) è un’eresia, perché mette il rispetto dei diritti civili al di sopra della sovranità del popolo. E questo per i nuovi paladini dello Stato illiberale non va proprio bene. Erdogan, Orbán, Putin e pure Trump ci insegnano, ognuno alla sua maniera, che il futuro dello Stato democratico deve essere illiberale, e le libertà civili non possono essere un freno alla volontà popolare, cioè alla loro. Orbán ci informa, con dovizia di particolari, che il vizio peggiore dei princìpi liberali è di favorire il multiculturalismo, la promiscuità delle genti, l’immigrazione, l’inclusività e, cosa orribile, il pluralismo delle idee. Trump ne trae ispirazione feconda che correda con la sua narrazione: o le minoranze si adeguano al parere della maggioranza (il suo) o muoiono. Fra i fan suprematisti, poliziotti compresi, sono in tanti ad averlo preso in parola.

Il Covid-19, con il suo carico di paure ed esasperazioni, ha radicalizzato una contrapposizione in atto ovunque. Da una parte i fautori di una politica solidaristica e umanitaria, fondata su una stretta correlazione fra responsabilità privata e collettiva, attenta al bene comune, rispettosa dei diritti umani e convinta che c’è parecchio da cambiare. Dall’altra, passata la grande paura, galleggia il fronte eterogeneo degli indifferenti che vogliono semplicemente ritornare ad essere quelli che erano e come erano; poi ci sono i liberisti ad oltranza che vogliono la normalità di prima, l’economia di prima e la politica asservita come prima. Sullo stesso fronte, seppur con intenti diversi, ringhia l’oltranzismo sovranista che vuole muri e frontiere, confonde il nazionalismo con il patriottismo, urla l’esclusione degli altri e trasuda razzismo ostentato e fascismo conclamato. E a questo proposito contesto i luminari di casa nostra per i quali il razzismo non c’è e il fascismo è roba del passato. La tesi: i fascisti avevano distrutto subito l’odiata democrazia, mentre oggi la destra oltranzista esalta la democrazia diretta. Rispondo: la democrazia senza le libertà è dittatura e in comune, fra ieri e oggi, vi è il rifiuto del pluralismo e delle minoranze. A non cogliere il riscontro o sono gli imbecilli interessati o i tanti "maître à penser" che titillano i talk show e che evitano le posizioni nette per paura e opportunismo. Vogliamo veramente credere che gli insulti a Liliana Segre e alle vittime dei lager, le croci uncinate sulle porte dei partigiani, il vado a sparare al negro, lo sprezzo dei migranti e il buon appetito ai pesci, le adunate a braccia tese, gli incessanti osanna a Hitler e Mussolini, i richiami ai pieni poteri rientrino fra degli episodi trascurabili?
In questo contesto di sentimenti esasperati, in America a perdere il lavoro, a morire di più, ad aver più fame sono gli afroamericani, quelli che stanno in basso, senza alcuna protezione sociale, e il sentimento di ingiustizia si dilata. Esplode dopo l’orrendo assassinio di George Floyd. Il poliziotto, che con cinica indifferenza e folle compiacimento ci guarda onnipotente l’abbiamo visto tutti, in diretta: preme il ginocchio sul collo di George Floyd sapendo di farlo morire, sta deliberatamente calpestando la vita di un uomo e con lui l’essenza stessa della convivenza civile. Il filmato sbatte in faccia all’America la vergogna di certe colpe mai risolte. Di colpo l’America è nuda e deve confessare che nonostante l’abolizione della schiavitù e poi della segregazione razziale nel 1964, sono ancora parecchi milioni quelli che ritengono che bianchi e neri, a ben guardare, non sono la stessa cosa. La Corte suprema, se ben ricordo, aveva decretato nel 1857 che gli afroamericani non sono cittadini e non hanno diritti innati. Ho l’impressione che così la pensino ancora troppi americani. Lo confessò Bill Clinton nel 1999: di fronte a un episodio di analoga ferocia ammise sconsolato che a un bianco non sarebbe mai successo.

L’omicidio di Floyd dà un colpo mortale all’America culla della democrazia, è il culmine di "400 anni di tanti George Floyd", e ha messo a nudo l’abisso persistente fra enunciazioni e pratica quotidiana. Nel 1776 i padri fondatori dichiararono al mondo che "tutti gli uomini sono creati uguali" e "dotati di diritti inalienabili", fra questi c’è la Vita, La Libertà e la ricerca della Felicità. Ma a 250 anni di distanza negli Stati Uniti la legge continua a non essere uguale per tutti. La struttura della società americana e perfino alcuni impianti legislativi fanno ancora i conti con il pesante fardello del segregazionismo. Il Civil Rights Act del 1964 proibì la discriminazione razziale nelle scuole, sul lavoro, nell’amministrazione pubblica ecc. Fu un atto giuridico molto importante ma non riuscì a eliminare la mentalità segregazionista nella testa di molte persone che continuano a considerare l’afroamericano un "nigger", ossia un cittadino non a pieno titolo. Nemmeno un presidente di colore è riuscito ad estirpare il male e il suo progetto di "una casa comune" è fallito. Gli afroamericani continuano ad essere uccisi e i responsabili tutti assolti dai Tribunali in base all’assurda teoria giuridica inventata dalla Corte Suprema dell’immunità qualificata che garantisce l’impunità alle forze dell’ordine. Vi ricordate "I have a dream" di Martin Luther King, 1963? Quel sogno non si è mai avverato.

Questa sorta di ribellione delle coscienze che sta incendiando gli Stati Uniti è deflagrata al cospetto del comportamento disgustoso di un presidente indegno che le divisioni le cerca perché non gli importa unire, ripristinare i diritti di tutti, riparare alle ingiustizie e non gli importa reprimere le violenze contro gli afroamericani perché i bianchi armati gli piacciono: gli importa vincere le elezioni. Invita i bianchi ad armarsi e la polizia a sparare, cavalca l’odio razziale, si scaglia contro gli antifascisti, esalta i suprematisti, pretende di schierare l’esercito contro i cittadini, fa sparare sui manifestanti e poi si rivolge al cielo, la Bibbia capovolta in mano, ma non credo che il Padreterno abbia gradito.

Naomi Klein, scrittrice di gran talento e giornalista, autrice di ‘Shock Politics’, (2017), enuncia il decalogo di Trump: proclama "che l’avidità fa bene. Che il mercato impera. Che i soldi sono tutto quello che conta nella vita. Che i bianchi sono migliori degli altri. Che la natura è lì per essere saccheggiata. Che i vulnerabili si meritano il loro destino e l’uno per cento si merita le sue torri d’avorio. Che tutto quanto è pubblico o di proprietà comune è sinistro e non vale la pena di tutelarlo".

Il disprezzo dei diritti umani è assoluto ed è probabile che Trump non abbia mai letto la Dichiarazione universale dei diritti umani. Gli porgo umilmente la versione inglese dell’articolo 7 nel disperato tentativo di fargli capire che la democrazia è un’altra cosa, ma dubito nel ravvedimento: "All are equal before the law and are entitled without any discrimination to equal protection of the law" . Alla luce delle ultime meditate esternazioni, immagino il commento: propaganda antifascista.

Forse domani ricorderemo l’efferato omicidio di George Floyd a Minneapolis e pochi giorni dopo di Michael Brooks ad Atlanta come il momento del risveglio della cittadinanza attiva, come il momento che ha convinto milioni di cittadini in tutto il mondo a dire "Basta, è troppo! Dobbiamo porre fine all’indecenza morale e politica di certi comportamenti".
Ma noi che condanniamo giustamente l’omicidio di George Floyd, noi che denunciamo la barbarie di una certa America, ricordiamoci che il ginocchio sui diritti civili lo ritroviamo ovunque, e anche l’Europa ha le sue colpe: non dimentichiamo le decine di migliaia morti in mare fra l’indifferenza generale, non dimentichiamo i migranti trattati come oggetti e corpi senz’anima e respinti alle frontiere e lasciati morire in condizioni ignobili, non dimentichiamo le espulsioni brutali e gli smembramenti impietosi delle famiglie e i minorenni abbandonati, non dimentichiamo le tante volte che abbiamo voltato la faccia dall’altra parte per non vedere. E non dimentichiamo che i giovani di colore in Francia subiscono un numero di controlli venti volte superiore rispetto ai bianchi: e anche da noi il colore attira l’attenzione delle forze dell’ordine. La nostra Costituzione ci ripete che "nessuno può essere discriminato, in particolare a causa dell’origine, della razza, del sesso, dell’età, della lingua, della posizione sociale, del modo di vita, delle convinzioni religiose filosofiche e politiche, e di menomazioni fisiche, mentali o psichiche". Ce lo dice la costituzione, ma di tanto in tanto ci si dimentica.

Forse, finalmente, oggi ricominciamo a respirare e giovani e vecchi, bianchi e neri, stanno riscoprendo la necessità di fare i conti con il proprio passato e di essere parte attiva nella costruzione del proprio futuro. Le proteste sono in tutto il mondo e anche la Svizzera fa la sua parte. C’è da sperare che durino fino a cancellare il tridente della vergogna: la discriminazione razziale, la discriminazione di genere e la discriminazione del pianeta. Sarà ardua impresa, ma c’è da sperare che all’indignazione segua l’impegno e non cessi la pressione. Certo, la distruzione di statue di personaggi equivoci può sembrare eccessiva perché lo storico ci dice che bisogna sempre contestualizzare. Ma se questo è il prezzo di una nuova presa di coscienza, di un atto di consapevolezza e di un mondo che vuole rimettere al centro la dignità dell’uomo e i diritti civili troppo a lungo calpestati in mille modi, allora io ci sto e dico che la rimozione, ossia l’allontanamento dallo spazio pubblico e celebrativo delle figure controverse, è un atto dovuto. Non la distruzione, questo no, perché per ricordare è necessario conservare gelosamente il meglio e il peggio, e discuterne. E per questo abbiamo gli archivi, i musei e gli storici.

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