laR+ L'analisi

La guerra delle statue

In un mondo senza memoria storica, la battaglia di questi giorni è quella della rappresentazione.

(Keystone)

Facciamo astrazione delle tracimazioni talebane, dai 'moretti' tolti in fretta e furia dagli scaffali di alcuni grandi magazzini alla messa più o meno al bando di 'Via col Vento'. Facciamo pure astrazione delle strumentalizzazioni di varia origine (Goldman Sachs che spudoratamente si schiera con il movimento 'Black lives matter'). Ed evitiamo le scorciatoie mentali nelle quali ci confinano i social (per o contro, nessuna sfumatura). La guerra delle statue scoppiata dopo l’uccisione di George Floyd apre una riflessione di fondo sulla storia e la memoria. Cioè sui fatti, loro realtà, l’interpretazione che diamo loro, e la selezione che ne facciamo, anche inconsapevolmente.

Ci si può scandalizzare se viene vandalizzato il bronzo di Winston Churchill che prima di diventare il mastino che sconfisse Hitler fu – come il Führer dopo di lui - assertore della superiorità della razza bianca. Non ci piace certamente vedere gettata a mare la statua di Cristoforo Colombo, ma così non la pensano i nativi americani. Riusciamo comunque a capire meglio che la stessa fine faccia quella di Edward Colston, mercante di schiavi a Boston. O che venga rimossa a Nashville nel Tennessee quella di Edward Carmack, politico favorevole al linciaggio dei neri. E che dire del generale Robert E. Lee che svetta un po’ ovunque in sella al suo cavallo negli Stati del sud: condusse la battaglia dell’America bianca e segregazionista nella guerra civile. Fa parte della grande storia, ma è l’emblema della schiavitù.

In un mondo sfilacciato, liquido, senza memoria storica, che sembra fluttuare su un perenne presente, la battaglia di questi giorni è quella della rappresentazione. L’etimologia della parola stessa connota il senso di quanto sta succedendo: rappresentare significa presentare di nuovo. A Milano la statua che immortala Indro Montanelli, è stata nuovamente vandalizzata ieri. Lui non è stato solo il giornalista apprezzato per la sua indipendenza, ma pure il fascista colonialista che negli anni 30, in Eritrea, comperò con una sorta di leasing una bimba di 12 anni e ne fece la sua schiava sessuale. Montanelli impenitente non fece mai un mea culpa: anzi riferì pubblicamente di quei fatti gongolando con soddisfazione. La scrittrice Francesca Melandri coglie perfettamente i termini della questione: la discussione, dice, non riguarda tanto una statua o Montanelli. È una discussione su di noi.

La necessità di “rappresentare di nuovo” è vecchia come il mondo. L’iconoclastia è associata storicamente all’impero bizantino, ma ha contrassegnato tutte le civiltà: i successori di Akhenaton hanno cancellato le statue del faraone riformatore; a inizio ‘500 Giovanni Calvino ha dato ordine di distruggere reliquie, pale, affreschi cattolici; con la “damnatio memoriae” diversi imperatori romani hanno cancellato le tracce dei loro predecessori; Napoleone Bonaparte ha ordinato l’abbattimento dei leoni di Venezia. La sua statua del generale imperatore eretta nella Place Vendôme fu a sua volta distrutta durante la Comune di Parigi. Come dire che continuiamo in fondo a rimodellare la nostra memoria storica. Come conciliare allora le giuste rivendicazioni di questi giorni con il rispetto della realtà storica che è fatta di luci e di tante ombre. Come evitare derive oscurantiste? Forse semplicemente storicizzando le rappresentazioni, togliendo gli emblemi più controversi dallo spazio pubblico. Portandoli e contestualizzandoli nei musei. 

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