L'analisi

Il ritorno dello Stato Islamico

(Tarek Samy)
27 novembre 2017
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Lo Stato Islamico non esiste più, eppure lo Stato Islamico continua la sua politica stragista. Perché se non è sopravvissuto come impresa territoriale (due anni fa, fra Iraq e Siria, controllava quasi totalmente un’area pari alle dimensioni della Gran Bretagna), e se è ormai tramontato il suo progetto di nazione, il Daesh è un ‘brand’, un marchio del terrore. Che riesce ancora a raggrumare migliaia di combattenti fuggiti da Raqqa e Mosul, oppure ad ispirare schiere di jihadisti ancora affascinati dal verbo di Abu Bakr Al Baghdadi di imporre con la forza un’idea di Islam radicale, intrattabile, ‘purificato’ da qualsiasi tipo di contaminazione interna o esterna al mondo musulmano. È su questo sfondo che va inserita la feroce carneficina alla moschea sufi di Rawda, nel nord del Sinai egiziano. La più grave – anche per l’assoluta viltà: la grande maggioranza delle oltre trecento vittime innocenti abbattuta a fucilate – nell’eterno scontro fra il potere centrale del Cairo e l’Islam militante.

Sinai, sufi, Egitto. Una triade non casuale per chi cerca di rianimare l’idea di un Califfato. Per cominciare, la penisola sabbiosa, il grande triangolo con le sue alture, le sue gole, le vallate rocciose, a lungo una terra senza legge, e popolazioni nomadi da sempre aliene al potere centrale. Lo capì perfettamente Israele nei suoi undici anni di occupazione militare su oltre un milione di abitanti, lasciando alle varie tribù beduine e ai capi locali ampi margini di autonomia. E lo ha dovuto accettare anche il Cairo, che non è mai riuscito ad imporre la propria autorità, rassegnandosi a un vuoto di potere, e limitandosi alla precaria protezione delle coste turistiche. Situazione quasi perfetta per i gruppi di ispirazione jihadista, che infatti da anni si sono insediati e gonfiati fra il confine di Gaza e il Canale di Suez.

Poi i sufi, musulmani che praticano una interpretazione mistica e assolutamente pacifica dell’Islam. Il massimo affronto, dunque, per un radicalismo salafita-wahabita che i seguaci dell’Isis coniugano invece con il massimo possibile di violenza. Sui seguaci di questa pratica, negli ultimi anni si era già abbattuta la rabbia dell’estremismo islamista, con attentati e sequestri, nell’inesausto tentativo di estirpare ogni forma di Islam considerato eterodosso e quindi scismatico.

Ma, in questa triangolazione, è soprattutto l’Egitto che interessa all’insurrezione islamista. L’Egitto inteso come entità statale e come il ‘regno corrotto’ del generale El Sisi, il nuovo faraone, che ha cancellato un governo islamista democraticamente eletto, e ha giustiziato centinaia di Fratelli musulmani, incarcerandone diverse migliaia, in una delle peggiori pagine di violazione dei diritti umani nel più grande Paese arabo. E qui il calcolo dei seguaci di Al Baghdadi è palese: attrarre nei loro santuari del Sinai chi fugge e si ribella alla dittatura anti-islamica del successore di Mubarak. Il prezzo di questa repressione potrebbe dunque risultare assai alto, e segna comunque il fallimento della lotta anti-Isis della dittatura egiziana.

In realtà, nemmeno quello che è già stato definito il “piccolo Califfato del Sinai” ha alla lunga qualche possibilità di affermarsi. Non solo non ci sono i numeri. È la stessa realtà geo-politica ad escluderlo. Stretti fra Israele ed Egitto, in prospettiva anche nel triangolo senza pace, i residui dell’Isis sono destinati alla sconfitta. Ma è la stessa sconfitta che non esclude altre stragi. Altre vite spezzate inutilmente.

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