Adesso ‘sultano’ lo è davvero. Ha i pieni poteri. Esecutivo, legislativo, giudiziario. Le leve del comando sono tutte nelle sue mani, e il controllo delle forze armate è diventato ancora più saldo dopo il ‘presunto golpe’ del luglio scorso. Un sultano, Recep Tayyip Erdogan, non proprio amato, se il referendum è tutto tranne che il plebiscito da lui agognato, se una prona Commissione elettorale ha accettato di violare la legge pur di assicurargli il risicato margine che gli consegna la vittoria, se l’Osce boccia la votazione per brogli manifesti e condizioni di voto inappropriate, e se la metà della Turchia boccia la sua volontà di potenza, praticamente imposta dopo dieci mesi di sfacciate e massicce iniziative di stampo dittatoriale.
È infatti retorico interrogarsi sulla validità di una consultazione a cui si è approdati dopo l’arresto di quarantamila persone i cui processi sono ancora senza sentenza, il brutale licenziamento di centomila dipendenti pubblici (fra cui non pochi magistrati), le lunghe liste di proscrizione per i veri o presunti simpatizzanti del rivale e nemico Fethullah Gülen, la chiusura per lo stesso motivo di scuole e università, lo stretto bavaglio alla stampa indipendente, gli oppositori frequentemente minacciati e spesso incarcerati, gli insultanti attacchi a puri fini nazionalistici contro le democrazie europee definite «naziste» per aver impedito una propaganda intollerabilmente faziosa sul proprio territorio, e uno spazio televisivo occupato quasi al cento per cento dai pretoriani del regime.
Dunque, una pesantissima cappa di repressione e pressioni, che non ha impedito a una parte probabilmente maggioritaria di esprimere coraggiosamente la propria opposizione alle ossessioni di potenza e alla deriva illiberale dell’uomo che pretenderebbe di essere un ‘nuovo Atatürk’, ma che invece della laicità dello Stato vorrebbe imporre la supremazia musulmana in nome di un ipotetico e ritrovato primato ottomano.
Le tiepide, se non gelide reazioni all’estero non possono in realtà nascondere l’imbarazzo di quella parte di comunità internazionale che ha fin qui considerato ‘indispensabile’ il legame con il neo-sultano. Si tratti dell’Unione europea, che ancor più difficilmente potrà ora spalancargli le porte dell’Ue ma che lo ha riempito di miliardi pur di consegnargli vergognosamente le chiavi del problema dei profughi siriani, della Nato di cui Ankara è bastione traballante e incoerente sulla linea orientale (la stessa Alleanza atlantica che l’ondivago Trump oggi giudica «non obsoleta»), e persino della Russia, con Putin che ha dovuto imporre la ritirata dell’esercito di Erdogan che nel Nord della Siria avrebbe voluto far piazza pulita anche delle formazioni curde in prima fila nella guerra contro lo Stato Islamico.
Cosa fare di questa Turchia lacerata e fertile terreno del terrorismo jihadista, come non abbandonare a sé stessa la parte del Paese che ha avuto l’ardire di negarsi ai superpoteri del presidente, come privare quest’ultimo del suo potere ricattatorio sul tema dei rifugiati. Sono questi i dilemmi di Occidente e Russia. I vari tentativi (di Washington e di Mosca) di servirsi di Erdogan in una serie di alleanze e contro-alleanze non hanno prodotto nulla di utile, date anche le sue repentine svolte politiche. E ora, i superpoteri del satrapo di Ankara promettono anche di peggio.