Da tre mesi le più grandi manifestazioni dai tempi di Milošević minano, per la prima volta in tredici anni, il potere del Partito progressista di Vučić
“Avete le mani sporche di sangue”. Slogan gridato, scritto, pianto, recitato o anche solo interpretato con vernice o guanti rossi. Da mesi è il simbolo delle più grandi manifestazioni popolari in Serbia dai tempi del regime di Milošević. Di certo, le più costanti: non passa giorno o quasi senza protesta nella capitale o in un’altra delle principali città. A cominciare da Novi Sad, dove il 1° novembre è crollata la tettoia della stazione ferroviaria, solo un paio di mesi dopo l’inaugurazione. Quindici morti e lutto nazionale.
La tragedia è l’origine delle mobilitazioni diventate di massa da fine novembre, quando degli studenti della Facoltà di arti drammatiche di Belgrado che stavano pacificamente rendendo omaggio alle vittime sono stati aggrediti da persone incappucciate. Davanti alla polizia, rimasta impassibile. Una miccia che ha scatenato la rabbia e l’estensione a macchia d’olio delle proteste: oltre cinquanta facoltà occupate, il mondo artistico e culturale, personalità sportive di spicco, l’ordine nazionale degli avvocati, i contadini, gli impiegati della Posta e persino quelli di alcune grandi aziende statali. Il crollo ha riacceso un malcontento che da anni serpeggia nella società e che ciclicamente riappare sotto forma di proteste. Sotto accusa la corruzione dilagante, principale indiziata per la tragedia. Nei giorni successivi alla disgrazia le autorità hanno negato che la pensilina fosse stata appena ricostruita. Le bugie – e il sospetto che si vogliano tutelare le aziende cinesi e ungheresi, oltre che locali, che hanno svolto i lavori in maniera approssimativa –, si sono trasformate in benzina sul fuoco contro un potere negli anni diventato sempre più soffocante.
Al governo dal 2012, il Partito progressista – solo di nome – di Aleksandar Vučić ha man mano assunto il controllo dei tre poteri fondanti dello Stato, della polizia, della maggior parte dei media, minando la democrazia faticosamente conquistata con la rivoluzione che nel 2000 ha segnato la fine dei sanguinosi anni Novanta. Con la complicità dell’Ue. Un’Europa stanca di sé stessa ha lasciato per troppo tempo i Balcani occidentali in sala d’attesa, integrando, e a fatica, solo la Croazia nel 2013, chiudendo opportunisticamente un occhio in Serbia, come negli altri Paesi della regione, sulle stabilocrazie in formazione. Per la prima volta in tredici anni, il potere di Vučić, già ministro dell’Informazione dal 1998 al 2000 sotto il tiranno Milošević, è seriamente a rischio.
Appoggiandosi a un forte sviluppo economico – il Pil è cresciuto più del 20% in un lustro e gli stipendi sono raddoppiati in dieci anni –, Vučić in patria ha messo in piedi un sistema clientelare, destreggiandosi in un artificioso equilibrio tra Occidente e Russia. Saltato con l’invasione dell’Ucraina. Ora l’Ue sembra essersi svegliata e preme per un’integrazione più veloce. Troppo tardi? Il Paese è in bilico fra la maturità democratica che dimostra la società civile e un autocrate alle strette. La piazza ha già cominciato a mietere vittime: quattro ministri hanno rassegnato le dimissioni dall’inizio della crisi, ultimo il premier Miloš Vučević, ex sindaco di Novi Sad. L’opposizione, spaccata e senza leader carismatici, non sembra volere però nuove elezioni, convinta che nascondano l’ennesima farsa orchestrata dal camaleontico presidente. Incidenti e arresti si sono moltiplicati negli ultimi mesi, la società è spaccata: il pericolo di una deriva violenta è reale.