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Il sangue di Herr Trumpf

Donald Trump dice che gli immigrati ‘avvelenano l'America’, proprio lui che ha quattro nonni europei. Resta la sottile linea tra migrante e povero

In sintesi:
  • Anche in Svizzera si gioca troppo facilmente con certi termini
  • Alla fine vale sempre la massima di Larry Holmes
La foga di Trump sul palco
(Keystone)
20 dicembre 2023
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Il 7 ottobre del 1865, un sedicenne tedesco di Kallstadt – un dimenticabile villaggio tra tanti, di quelli con poche centinaia di anime e nessuna idea di futuro – si imbarcò a Brema sul piroscafo Eider. Dodici giorni più tardi arrivò al Castle Garden Emigrant Landing Depot di New York, il grande ufficio “arrivi disperati” che gli Stati Uniti avevano messo su per regolamentare gli accessi. In quelle stanze il ragazzo, di nome Friedrich, venne registrato come “Friedr. Trumpf”, professione disoccupato.


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Friedrich Trumpf, poi diventato Frederick Trump, nonno di Donald

Da quella stessa porta d’ingresso, tra il 1855 e il 1890, sono entrati in America esattamente 8’280’916 migranti. Uomini e donne di tutto il mondo continuarono ad arrivare in massa anche dopo il 1890, ovviamente: non più a Castle Garden, che fu chiuso, ma nella celebre Ellis Island, mito sudicio, promiscuo e fondante dell’America moderna e cosmopolita, punto di partenza di chi si trovò poi a vivere dentro la frase – pare di un italiano – rimasta simbolo di tante cose che sembrano passato ma non lo sono: “Sono venuto in America perché mi avevano detto che le strade erano lastricate d’oro. Quando sono arrivato, non solo ho scoperto che non erano lastricate d’oro, ma non erano lastricate affatto. Anzi, quello che doveva lastricarle ero io”.

Friedr. Trumpf, diventato nel frattempo Frederick Trump, per campare si trovò a lastricare i capelli altrui: professione barbiere. Poi andò sulla costa Ovest e fece fortuna, lasciando in eredità abbastanza all’intraprendente figlio Fred da fargli tentare una scalata economica e sociale avvenuta poi grazie al fiuto nel mondo dell’edilizia.


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Castle Gardens, porta d’ingresso agli usa prima di Ellis Island

Donald Trump – figlio di Fred e di Mary MacLeod (nata a Tong, piccolo villaggio nelle Ebridi, nel nord della Scozia), nipote di Frederick fu Friedrich e di altri tre nonni tutti nati in Europa, nonché marito di una donna slovena – in uno dei suoi comizi a spada sguainata ha parlato di “immigrati che avvelenano il sangue dell’America”. Non lo fa a caso, l’ex presidente degli Stati Uniti che vuole diventare il nuovo presidente degli Stati Uniti: sa che la triade sangue-sesso-soldi, quella che una volta faceva vendere i giornali, ora fa vendere campagne elettorali basate sull’odio e la divisione.

Sa anche un’altra cosa Trump, che “immigrati” nel suo vocabolario non vuol dire davvero “immigrati”, ma vuol dire “poveri”. E cosa c’è di meglio che dare in pasto a un elettore immiserito nel portafoglio, negli orizzonti e nel linguaggio, uno più povero con cui prendersela? Anche noi, però, coltiviamo il nostro piccolo Trump interiore quando chiamiamo “migrante” il siriano o l’afghano in cerca di un posto in cui vivere senza dover controllare ogni secondo che ci sia la morte fuori dalla porta, mentre l’americano o l’inglese che stanno a Zurigo sono “expat”. Insomma, ci sono le lumache e ci sono le escargot.


Keystone
Proteste anti-Trump sul muro di Tijuana

In Svizzera, una parte politica (quella più votata, almeno in Ticino) descrive trumpianamente il frontaliere italiano o il supermercato oltreconfine come l’origine di tutti i mali. Eppure nessuno chiede di “tornarsene a casa loro” ai due uomini più ricchi della Confederazione, entrambi italiani.

Quanto aveva ragione il campione di pugilato Larry Holmes quando diceva: “Anche io una volta sono stato nero. Quando ero povero”. Sta tutto lì. Trump lo sa, e rischia anche di vincerci le elezioni. Altrove, e non dobbiamo guardare nemmeno troppo lontano, qualcuno c’è già riuscito.

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