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Terza imputazione e non è finita

Trump deve rispondere di ‘cospirazione’ per l’assalto a Capitol Hill. Lo attende già un’altra accusa, ma la sua popolarità di ‘perseguitato’ resta alta

In sintesi:
  • Lo scontro legale rinvigorisce la base trumpiana
  • Nessun padre fondatore aveva previsto che una figura del genere potesse ricandidarsi alla presidenza
(Keystone)
2 agosto 2023
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Più viene perseguito dalla magistratura, più si consolida il suo primato nel campo repubblicano. Non sarà diverso questa volta. Dopo l’incriminazione per aver usato fondi della campagna elettorale per comprare il silenzio di una pornostar, e dopo quella per essersi impossessato di documenti classificati top secret della Casa Bianca nascondendoli (servendosi anche della toilette) nella sua villa di Mar-a-Lago in Florida, ecco la formalizzazione di una terza accusa da parte del Gran Giurì di Washington, con convocazione per oggi alle 16: stavolta l’accusa è di ‘cospirazione contro gli Stati Uniti’ per aver incitato i suoi sostenitori più fanatici a prendere d’assalto il ‘tempio della democrazia americana’, il Capitol Hill di Washington, con l’obiettivo di impedire con la violenza la proclamazione del 46esimo presidente americano eletto, Joe Biden.

Immagini indimenticabili. Era il 6 gennaio 2021: scatenati sciamani, suprematisti bianchi, complottisti di vario genere, nostalgici del Sud segregazionista sconfitto nella guerra civile penetrarono con la violenza nella sede parlamentare, superando con sospetta facilità un inadeguato e abbastanza passivo cordone di polizia. ‘Prima’ assoluta nella storia degli Stati Uniti. Drammatico approdo (quindi non del tutto imprevedibile o sorprendente) di una nazione non solo profondamente divisa, bensì in preda a uno scontro fisico che sancisce uno storico e irrisolto conflitto interno, con radici nelle vicende della sua tormentata nascita e nell’anticentralismo cronico. Che ha trovato in un iperdivisivo Donald Trump la miccia purtroppo ideale.

C’è dunque da scommettere che la terza incriminazione contro il tycoon, imperterrito nella falsa e maniacale denuncia di ‘elezioni rubate’, non farà che rinvigorire le truppe elettorali dei suoi ammiratori. La tesi della presunta “persecuzione” finora paga nel campo repubblicano. Il divario fra il tycoon e il suo principale concorrente interno (il giovane governatore della Florida, Ron DeSantis, iperconservatore ma troppo legalista per i fan dell’ex presidente) è abissale, praticamente incolmabile: oltre il 52% contro il 17%, e il gap rimarrà tale anche dopo l’ultima incriminazione. Allo stato attuale Trump vincerebbe perciò a mani basse le primarie del suo partito.

Un Grand Old Party colpevolmente prigioniero del ‘Don’, ancor più che nella prima campagna elettorale, visto che oltretutto è ora costretto a difenderlo dai magistrati che lo incriminano e che Trump definisce ‘pazzi cacciatori di streghe’ (lo ha ripetuto naturalmente anche contro Jack Smith, l’inflessibile procuratore speciale, già firmatario del secondo e ora di questo terzo atto di comparizione). Aggiungendo, il tycoon, che “si tratta di una persecuzione in stile Germania nazista e Urss”: chissà come la prenderà l’‘amico’ Putin, impegnato da tempo nella riabilitazione dello stalinismo come garante, dopo lo zarismo, delle imprese imperiali del suo Paese.

Non sorprende dunque che il pluriaccusato spenda più per la sua difesa che per la campagna elettorale. Si sa ora che lo fa anche attraverso ‘Save America’, il gruppo di raccolta dei suoi fondi elettorali, che si serve della controversa formula ‘Leadership Pac’. Escamotage assai discusso negli Stati Uniti, che, nonostante il contrastante parere di diversi giuristi, consentirebbe a un candidato di utilizzare parte delle somme versate dai sostenitori non esclusivamente per impegni legati alla campagna elettorale. Comunque, proprio negli scorsi giorni il gruppo ha comunicato di aver speso nella prima parte di quest’anno ben 21 milioni di dollari in spese legali per Trump. Allora, ‘Save America’ o… ‘Save Donald’? E basteranno a salvarlo da una condanna? Domanda legittima, anche perché potrebbe presto arrivare una quarta incriminazione, forse la più insidiosa. Dovrebbe partire da Atlanta, in Georgia, e riguarderebbe la telefonata (c’è agli atti la registrazione) in cui Trump tentò inutilmente di convincere il segretario di Stato locale, Brad Raffensperger, a truccare l’esito della consultazione presidenziale in quello ‘Swing State’ (Stato in bilico): “Trovami gli undicimila voti mancanti”.

Ma poi… poi c’è da tener conto del paradosso per cui persino una condanna definitiva, e persino il carcere, secondo la legge statunitense non impedirebbero a Donald Trump di partecipare al “nobile rito” delle presidenziali, e quindi di vincerle. Rompicapo per molti esperti americani. Una situazione del genere (un ex capo dello Stato candidato nonostante una sanzione penale) non venne presa nemmeno in considerazione dai padri fondatori. E a nessuno, in oltre due secoli di storia, venne in mente di aggiornare la Costituzione della nazione che, stando a una vetusta autonarrazione e a una imperturbabile convinzione messianica, continua a “brillare in cima alla collina”. Di una luce in realtà più inquietante che rassicurante.

Questo contenuto è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il sito d’informazione naufraghi.ch

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