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L’America di ‘Stormy’ Donald

L’incriminazione penale da parte del Grand Jury di Manhattan solleva numerosi interrogativi. Anche sullo stato di salute della democrazia americana.

In sintesi:
  • Il tycoon finora è sempre riuscito a salvare la propria pelle
  • Come reagirà l’elettorato, che in passato ha perdonato tutto al mentitore seriale?
Stormy Donald
(Keystone)

Mezzo secolo di inchieste statali, distrettuali, federali. A inaugurare l’interminabile serie fu esattamente 50 anni fa quella che vide accusati Donald e il padre Fred di discriminazione razziale nei confronti di aspiranti inquilini dei Trump buildings. In un modo o in un altro l’ex presidente è sempre riuscito a salvare la propria pelle, anche se alcune delle inchieste per reati maggiori sono tuttora in corso: da quella per gli assets gonfiati per ottenere prestiti da banche e assicurazioni, a quella avviata dalla Procura della Georgia per aver tentato di ribaltare il risultato elettorale in quello Stato nel 2020, fino all’indagine federale per il tentato golpe del 6 gennaio dell’anno successivo.

L’incriminazione penale da parte del Grand Jury di Manhattan, la prima nella storia del Paese a un presidente o ex presidente, riguarderebbe (l’atto d’accusa è ancora sotto sigillo) il versamento di 130mila dollari alla star del porno Stephanie ‘Stormy’ Daniels, ‘faccia da cavallo’ – l’epiteto coniato da Trump – per comperare, alla vigilia delle Presidenziali del 2016 il suo silenzio sulla relazione che avrebbe intrattenuto con il Tycoon. Questo tipo di corruzione non è di per sé perseguibile: viola tuttavia la legge federale sulla campagna elettorale.

Una ‘felony’ che può sembrare risibile se confrontato ad altri reati sotto inchiesta, ma anche il principe della criminalità organizzata Al Capone fu incastrato per ‘evasione fiscale’ e i mastini della Procura statunitense sanno muoversi come tassi nella macchia per vincere le battaglie nei tribunali scandagliando tutti gli anfratti legali.

Alvin Bragg, procuratore distrettuale di New York è uno di questi e non ha dovuto attendere a lungo per vedersi rovesciare addosso la classica ‘shit storm’ di Trump e della sua tifoseria: «Accuse corrotte, false, caccia alle streghe» (Trump); «Bragg ha danneggiato il Paese per interferire nelle elezioni» (Kevin McCarthy, speaker della Camera); «Bragg è un uomo di Soros» (l’immancabile ritornello della destra, questa volta si basa tuttavia in parte su un elemento reale, l’appoggio dato dalla fondazione Color of Change, finanziata in parte dal miliardario d’origine ungherese, all’elezione di magistrati progressisti).

Martedì l’ex presidente dovrà presentarsi in polizia per le classiche ‘fingerprints e mugshots’ (foto segnaletiche) e come ogni altro presunto criminale potrà essere ammanettato e arrestato, anche se quest’ultima ipotesi appare improbabile. Accetterà di recarsi a New York o rimarrà nel resort di Mar-a-Lago in Florida il cui governatore repubblicano («senza di me DeSantis lavorerebbe in pizzeria», aveva esclamato Trump) ha annunciato di opporsi all’estradizione?

Se l’alterigia esternata dal suo entourage («Vogliono la guerra? Diamogliela», si legge sulla piattaforma Truth) non fa più notizia, l’interrogativo già al centro di numerosi commenti riguarda la reazione dell’elettorato, che in passato ha perdonato tutto al mentitore seriale. Joe Tacopina, avvocato di Trump, è convinto che l’‘affaire Stormy Daniels’ catapulterà di nuovo il suo assistito alla Casa Bianca. Una prospettiva che suffragherebbe le previsioni sul miserabile stato di salute della democrazia americana, sintetizzato dal titolo del recente importante saggio del giornalista del ‘New Yorker’ Luke Mogelson: ‘La tempesta è qui’.

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