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Interpellanze in zucche: l’immorale ‘magia’ di Unitas

La richiesta di risposte chiare in merito all’audit sull’associazione ciechi e ipovedenti della Svizzera italiana potrebbe trasformarsi in interrogazione

In sintesi:
  • Fra interesse pubblico e volontà di rimandare, magari dopo il 2 aprile, i necessari chiarimenti
  • Se non vi è qui, dove vi sono delle vittime, il criterio della celerità dove lo troviamo?
Il Gran Consiglio su Unitas
21 gennaio 2023
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Quando una persona, vittima di molestie e violenze, fisiche e verbali, e ancor più subdole come il mobbing o l’abuso di autorità, deve attendere anche un solo giorno per ottenere giustizia, ebbene è un giorno di troppo. E nella triste vicenda di Unitas non si parla di giorni né di settimane e mesi, ma addirittura di anni e decenni.

Suona, dunque, quantomeno scandaloso e incomprensibile, se non legato a chiare strategie di ‘sfere d’influenza’, l’indicazione da parte della maggioranza dell’Ufficio presidenziale del Gran Consiglio di trasformare in interrogazione l’interpellanza interpartitica che in tredici punti mira a chiedere chiarezza sui risultati dell’audit che ha scandagliato l’attività dell’associazione ciechi e ipovedenti della Svizzera italiana evidenziandone lacune e vizi.

Parlare, dunque, come riportato dalla presidente del legislativo cantonale, di una ‘non urgenza’ è uno schiaffo che fa ancora più male di quelle viscide carezze sulle cosce, di quei baci rubati in ascensore o di quelle richieste di sussidi concessi solo ’a una condizione’. Una sberla a cinque dita, in piena faccia, calpestando, senza vergogna, onore e coraggio di quanti, abbattendo il muro dell’omertà e della connivenza, hanno denunciato il fare maniacale e dispotico di colui, che al vertice di Unitas, avrebbe dovuto tutelarli e difenderli.

Alterare quell’interpellanza, con la facilità di una bacchetta magica che trasforma, questa volta, carrozze in zucche, significa non tenere conto del chiaro interesse pubblico e, quindi, di risposte che esigono il proscenio del Paese tutto, ovvero il parlamento; con la possibilità peraltro di un vero contraddittorio e non, diversamente, di righe su carta che, in un’interrogazione, finiscono per dire... tutto e niente.

Invocare alla privacy, per mantenere segretati documenti che le stesse vittime chiedono fin dall’inizio, con le loro confessioni e dichiarazioni, di rendere pubblici, porta a credere di non voler scoperchiare completamente quello che pare un vaso di Pandora così da poter spalleggiare, indisturbati, quanti continuano a rimanere al loro posto, magari perché amici, parenti o sponsor elettorali.

E siccome in questa brutta storia molte sono le donne che ne sono uscite con le ossa rotte e i nervi a pezzi, perché prese di mira dall’alto dirigente non solo nella parentesi di una cena annuale, ci chiediamo come possa la discutibile richiesta passare quando in quell’Ufficio presidenziale su nove membri figurano quattro donne e con loro uomini esponenti di partiti che imbevono, da sempre, i loro programmi con chiari riferimenti alla difesa dei diritti delle donne.

Ma allora chi alla trasparenza preferisce il sordido, chi alla celerità della giustizia l’insabbiamento (perché è di questo che si tratta, spostando necessari chiarimenti presumibilmente oltre il fatidico 2 aprile)? Chi continua a tutelare un comitato che seppur abbia fatto acqua da tutte le parti, sommerso da critiche e tirate d’orecchi, continua imperterrito a sedere laddove non avrebbe più ragion d’essere? Chi pretende, dai piani alti, di bloccare, con interventi a gamba tesa, quanto dà a loro fastidio?

Una brutta storia sì. Peccato che, seppur fra orchi e cenerentole, questa non è una favola. Speriamo allora lunedì in un dietrofront su quanto paventato. Per il bene della giustizia, per il bene dell’interesse pubblico.

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