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L’Ucraina e la civetta di Minerva

Usa e Russia strette tra rivendicazioni e muscoli in mostra, ma la guerra non è inevitabile, perché oggi non è nell’interesse di nessuno

Un soldato ucraino a Mariupol (Keystone)

La civetta di Minerva (dea della saggezza) si alza in volo solo all’imbrunire, sosteneva con una suggestiva metafora Hegel. Con quell’immagine il grande filosofo tedesco voleva dirci che la conoscenza giunge sempre in ritardo, quando gli avvenimenti si sono già prodotti. Nel leggere gli eventi che stanno riportando venti di guerra in Ucraina e di riflesso in Europa, questa consapevolezza dovrebbe invitarci a una certa prudenza. A meno di non essere più stolti della civetta (da una parte gli eredi degli “utili idioti”, quegli occidentali che stando a Lenin si appassionavano acriticamente per il regime moscovita, dall’altra gli odiatori seriali di tutto quanto assume una parvenza russa) o di credersi più intelligenti del piccolo rapace (il che, in sostanza, è la stessa cosa).

Questione complessa

Nel teatro ucraino, a farla da padrona è la complessità; nemica della comprensione è la semplificazione. L’antiamericanismo grossolano, nel quale sono ingabbiate una certa sinistra e la destra più radicale, si affretta a celebrare il viceammiraglio tedesco Schönbach, dimissionario per aver manifestato comprensione per Putin. In realtà, lungi dall’essere un campione del pacifismo o dell’antiatlantismo, aveva spiegato che da “cattolico radicale” considerava la Russia, Paese cristiano, “utile contro la Cina”. Insomma più vicino a Urbano II, il Papa che lanciò le Crociate, che non a San Francesco. Mosca ha ammassato dallo scorso autunno l’artiglieria pesante, batterie antiaeree, forze mobili e vario materiale bellico spostato dalla Siberia lungo la frontiera con l’Ucraina. In tutto certamente oltre 100mila soldati.

Rivendicazioni fuori tempo massimo

Putin chiede non solo che la Nato rinunci a inglobare Kiev, ma pure che dall’Alleanza atlantica se ne vadano i Paesi che vi hanno aderito dopo il 1999, tra cui la Bulgaria, la Romania e i Paesi baltici. Come se in un remake del dopoguerra, questi fossero ancora di sua proprietà. Non a caso la linea dell’intransigenza di fronte a Mosca è capeggiata da Varsavia, che dell’orso russo serba un drammatico ricordo (nel Paese sconvolto dalla barbarie nazista si consumò anche quel massacro, ficcato nella memoria dei polacchi, di 22mila ufficiali, industriali e intellettuali fucilati a Katyn nel 1940 per ordine di Stalin).


Joe Biden e Vladimir Putin (Keystone)

I muscoli di Capitan America

Ma ad alzare pericolosamente il tono sono anche gli Stati Uniti, spintisi certamente oltre i limiti della prudenza e della diplomazia. Certo l’America non manderà i G.I. a morire per l’Ucraina in un conflitto dalla potenziale tracimazione atomica, ma l’escalation verbale, le minacce di sanzioni (con la pesantissima esclusione dal sistema mondiale di transazioni finanziarie e commerciali Swift) nonché il massiccio invio di materiale bellico (a quelle Usa o della Gran Bretagna si aggiungono le forniture dei Paesi baltici o della Turchia) non possono che irritare l’innervosito autocrate russo. Lo ha capito la Germania, a cui la cautela (oltre alle ombre del passato e alle massicce forniture russe di gas) ha suggerito un posizione attendista.

In realtà i muscoli ormai roventi dell’oratoria putiniana e di quella del Pentagono sono gravidi di pericoli ma non possono nascondere i dilemmi statunitensi e soprattutto quelli del Cremlino. Un’invasione non sarebbe indolore: l’esercito ucraino è moderno e ben equipaggiato e gli invasori si ritroverebbero confrontati con un Paese a loro pesantemente ostile. Nessuno sa se nella testa di Putin sia già balenato il turpe progetto. Ma la guerra non è sicuramente inevitabile, perché oggi non è nell’interesse di nessuno.

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