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La democrazia, signora mia. Note su un andazzo reazionario

Riesce ancora a stupirmi, la piega che stanno prendendo certi fogli ticinesi. Parrebbe che lottare per i diritti civili sia pericoloso e illiberale

(Wikimedia)
29 agosto 2020
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Riesce ancora a stupirmi, la piega reazionaria che stanno prendendo certi fogli ticinesi. A leggerli in questi mesi sembra che perfino lottare per i diritti civili sia pericolosamente illiberale. Al punto che se fosse per loro, vien da pensare, gli Stati Uniti sarebbero ancora una colonia inglese (smettetela di buttare tutto quel tè giù dalle navi, screanzati). Ogni protesta progressista – in primis quella afroamericana, ma anche quella ambientalista e molte altre – è letta come un’irresponsabile spallata alle basi stesse del dialogo democratico, secondo una forma di kitsch intellettuale che ormai vede in Ernesto Galli della Loggia uno dei suoi indiscussi protagonisti. Il venerato maestro – preso in prestito un po’ perché ormai è più conservatore di Nixon, un po’ perché la grande firma nei salotti di provincia fa sempre colpo – ha mostrato l’altro giorno di avere le idee ben chiare su questa presunta crisi della democrazia. Accanto a elementi di disgregazione e diseguaglianza economica sui quali si potrebbe anche essere d’accordo, Gidielle punta il dito contro un aspetto culturale a suo dire esiziale: “Una parte della popolazione, invece di riconoscersi come avveniva fino a qualche tempo fa in valori comuni all’intera collettività e quindi unificanti (innanzitutto per esempio il valore dell’appartenenza nazionale e di quella cristiana, ovvero a una visione generale del mondo rappresentata da una grande opzione politico-ideologica), invece di riconoscersi di conseguenza nella storia all’origine di tali valori comuni, non solo contesta accanitamente l’una e gli altri (il caso degli Stati Uniti negli ultimi tempi è il più clamoroso ma non è certo l’unico), ma si riconosce soprattutto in valori diversi. Valori che si fondano essenzialmente sulla separazione e la differenza”, sulla “contrapposizione rispetto a quelli considerati propri della maggioranza, e che in genere finiscono per costituire la base di vere e proprie visioni del mondo alternative (si vedano ad esempio certe versioni del femminismo, l’adesione a stili di vita sessuale, alimentare, all’ideologia «green»)”.

Intanto è discutibile ritenere che pensarla diversamente sia sempre un gran rischio per la democrazia, e che questa si basi anzitutto sul “valore dell’appartenenza nazionale e di quella cristiana”. L’identitarismo religioso ha spesso fatto più male che bene al processo democratico: si pensi al ‘Non expedit’ col quale la Santa Sede vietò ai cattolici di partecipare alla politica italiana, o ai secolari episodi di assolutismo e antisemitismo di matrice cristiana che conosciamo tutti. Tanto che gli stessi credenti a un certo punto vollero superare quel passato, anche attraverso quel processo conciliare che in Italia come in Ticino vide emergere anime sinceramente democratiche. Quanto al senso d’appartenenza nazionale: è assolutamente legittimo, ma impugnato a sproposito; e dopo i moti d’indipendenza degenerò spesso nel nazionalismo, finendo per insanguinare le trincee di due guerre mondiali. Va bene che il nitore delle ‘neiges d’antan’ è sempre abbacinante, ma insomma.

Il colpo da maestro, comunque, è l’intemerata contro “certe versioni del femminismo, l’adesione a stili di vita sessuale, alimentare, all’ideologia «green»”. Non mi pare che la lotta per la parità di genere, la rivendicazione del diritto a metter su famiglia con chi si ama, la preoccupazione per l’ambiente – o anche solo il fatto di preferire un’insalatina a una luganighetta – costituiscano clamorose minacce per la democrazia. Quanto agli “stili di vita sessuale”, l’espressione mi ricorda quei vecchi preti che raccomandavano di non toccarsi per non diventare ciechi.

Più sottile è la critica a una società che si divide su questioni identitarie, nella quale “la separazione e la differenza” rimettono in discussione un concetto condiviso di comunità. Tony Judt – storico geniale, raro esempio d’intellettuale pubblico, ebreo, fieramente progressista – già più di dieci anni fa denunciava l’emergere di una “hyphenated society”, una società coi trattini nei quali una certa identità più ristretta prevale su quella comunitaria: afro-americani, italo-americani, Lgbtq e via dicendo. Va detto però che quella forma di ghettizzazione è stata per secoli imposta dalle discriminazioni provenienti dall’esterno, più che da chissà quale impulso ‘tribale’.

In ogni caso è prudente evitare la tendenza a trasferire certi fenomeni nel mondo europeo, deformandoli e travisandoli un po’ per sciatteria, un po’ per dirottare su una scorciatoia il dibattito domestico. Qui siamo alla periferia dell’impero, dove la cosa più pericolosa è semmai la tendenza a rifugiarsi nelle retrotopie posticce dell’identità comune, delle radici, del diopatriafamiglia. Insomma: di tutta quella paccottiglia ideologica che punta a screditare chiunque non la pensi come cinquant’anni fa. È da questa miscela di nostalgie reazionarie e declinazioni populiste – non dai matrimoni gay, da Black Lives Matter o da Greta – che verrà semmai qualche cruccio per le democrazie.

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