Commento

Venezia, bella e fragile

L'acqua alta ha scatenato una tempesta di immagini e iperboli linguistiche che ne sviliscono la drammaticità e non spiegano ciò che è accaduto

15 novembre 2019
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Anche Venezia non è più la stessa. Lasciamo stare i fasti della sua storia, l’iconica grandezza di una potenza marinara, così legata all’acqua da fondare sulle onde i monumenti stessi della propria magnificenza. Cose di un lontano passato. Non è più la stessa neppure l’immagine di melanconica fragilità, di decadenza un po’ kitsch che l’acqua alta di vecchie fotografie in bianco e nero trasfiguravano in poesia.

Oggi l’acqua alta scatena piuttosto una tempesta di immagini e iperboli linguistiche che ne sviliscono la drammaticità e allontanano la comprensione di che cosa sia avvenuto. Le ‘apocalissi’, gli ‘shock’, i filmati a malapena distinguibili dalle messinscene cinematografiche parlano più di sé stessi che dell’evento. E dunque non lo spiegano.

In sé, la portata della marea che ha sommerso la città giustifica l’allarme. La città ne ha conosciuto di peggiori, ma ciò non vale a sottovalutare ciò che è accaduto. Semmai a interrogarsi sul perché si debbano ripetere.

I cambiamenti climatici – responsabili ormai anche del risotto che attacca sul fondo della padella quando ci si scorda di rimestarlo – c’entrano, sicuro. Ma evocarli come se ciò bastasse a spiegare tutto non porta a niente. Effetto serra o no, gli olandesi hanno trovato il modo di convivere con un oceano che potrebbe sommergerli con una sola “acqua alta”. Perché Venezia no? Perché la spesa di non pochi miliardi di euro per un sistema di sbarramento delle maree (il cosiddetto Mose) non ha garantito protezione alla città? Perché non è operativo. Mazzette, inchieste, pastoie burocratiche, sappiamo.

E poi Venezia non finisce sott’acqua soltanto a causa della marea e dello scirocco e dei negazionisti climatici. Venezia affonda anche da sé, per un abbassamento del fondale su cui poggia, dovuto alla tettonica (la placca adriatica che spinge verso la dorsale appenninica, inabissandosi), e al cedimento del suolo causato dallo sfruttamento intensivo delle falde. Oltre che per la spremitura di ogni sua risorsa da parte di una industria turistica cannibale (quando, a proposito, ci si risolverà a trattare il turismo epidemico come una piaga del nostro tempo?).

E poi, certo, Venezia è sul mare, e le prospettive di innalzamento degli oceani suonano a morto per la Serenissima. Cercare di scongiurarlo è ciò che si deve al patrimonio dell’umanità intera. Ma farebbe un torto alla stessa umanità non considerare quanto una insensata urbanizzazione delle coste, costituita per la gran parte da suburbi dove di Tintoretto non si conosce neppure il nome, concorre ad aggravare il potenziale disastro dell’innalzamento dei mari. Piangere Venezia ignorando il resto fa versare lacrime di coccodrillo.

 

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