Commento

Distruzioni per l'uso | La lingua di gomma

A volte le istituzioni pubbliche e private usano le parole come fumogeni, per nascondere le loro debolezze

Italo Calvino
25 giugno 2018
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“Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: ‘Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata’.

“Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: ‘Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante’”.

Scrittore dalla prosa tersa come un brillante, Italo Calvino scimmiottava cosi l’”antilingua inesistente” di “avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e telegiornali”. Sottolineando come questa lingua manifesti una specie di “terrore semantico”, la paura d’usare termini così semplici da avere ancora un significato.

Mi torna in mente sfogliando alcuni documenti per un articolo. A farmi incespicare, frasi del genere: “questa prospettiva richiede una revisione dell’approccio didattico, orientata sia a sviluppare e consolidare i saperi richiesti dall’esercizio di un agire competente sia ad attivare e a offrire processi associati alla mobilitazione di tali saperi”. Mi stropiccio gli occhi, sarò stanco io. Procedo poco oltre: “Attività di formazione continua indirizzate alla gestione relazionale e comunicativa permettono al docente di conoscere i principi di base della ‘pragmatica della comunicazione’.” Mah, vabbè, sarà qualcuno che vuole far vedere che ha fatto il Classico. Cambio documento, cerco i requisiti richiesti per un progetto: “completezza e chiarezza dei riferimenti contestuali rapportati al contesto istituzionale e d’aula”. Potrei andare avanti a oltranza, ma sono già ubriaco.

Ora: non è che io voglia prendermela specificamente con gli autori di queste frasi. È ovvio che ‘supercazzole’ del genere arrivano giornalmente da qualsiasi dipartimento pubblico e ufficio privato (“nell’attesa di un vostro gradito riscontro in merito alla tematica di cui all’oggetto…”). Ma perché tutto ciò? L’impressione è che il “terrore semantico” sia il risultato di un preciso meccanismo di autodifesa del potere (stavo per aggiungere ‘orwelliano’, ma ho visto Calvino che scuoteva la testa). A usare parole chiare, precise, rotonde, si finisce per essere comprensibili. E quando si è comprensibili, si è anche criticabili: non la semplice critica del “sa capiss nagott”, di per sé innocua, ma la critica puntuale di quanto si sta dicendo. Meglio dunque usare i fumogeni per nascondere la propria nudità. Una reazione tanto più comprensibile nelle organizzazioni complesse, dove tutti, dai superiori al ‘pubblico’, sembrano accerchiarci come un plotone d’esecuzione.

Così la lingua di gomma, quella che puoi sempre cancellare e riscrivere a tuo piacimento, diventa un gergo da scriba. Tenendo la realtà fuori dalla porta, si tengono lontani anche i nemici. Non voglio certo fare polemiche anti-casta, ché non vorrei fare il gioco di certi demagoghi. Ma se la “casta” vuole continuare a essere tale, prima o poi dovrà pur farsi capire. E magari anche capirsi. Altrimenti la pressione dello scontento si farà insopportabile.

Per essere chiaro, specifico che in questa “casta” includo anche i giornalisti. Me per primo, dato che certi processi d’imitazione sono difficili da scardinare. Siamo quelli che “le ipotesi di reato sono al vaglio degli inquirenti” (quanti sanno ancora cos’è un vaglio?), “la squadra partenopea”, “la colonnina di mercurio”. Trascriviamo le interviste come una “zia ottantacinquenne, ex maestra elementare”, come dicevano Fruttero & Lucentini: “’Non v’è dubbio che le preferenze delle massaie si orientano verso i pomidoro scozzesi’, svela un rude scaricatore dei mercati generali. ‘Siffatti provvedimenti non giovano un bel nulla!’, esclama un oste trasteverino”. E ci mettiamo anche il carico, pur di emozionare il lettore: “la scia di sangue”, la vicenda che “si tinge di giallo”, gli “strateghi del terrore”, il “paesello ammutolito dal dolore (commoventi le parole del parroco)”.

Forse è anche una questione storica, di fine impero. Relegate alla periferia di un mondo che un tempo aveva l’Europa al centro, le parole “si sfarinano in bocca come funghi marci”, come succedeva a Hugo Von Hofmannsthal sul finire dell’impero asburgico. E magari si è costretti a ricalcare malamente modi e stili che vengono dalle nuove capitali; si pensi a quegli scrittori italiani che fanno parlare i loro personaggi quasi fossero doppiatori delle serie tv (“Ma che stai dicendo? Dannazione! Apri questa fottuta porta!”: pesco da un bell’articolo di Violetta Bellocchio su ‘Nuovi Argomenti’). Invece di riprendere, magari, quella spiazzante semplicità che contraddistingue proprio i grandi autori e giornali anglosassoni.

Vabbè, ora la smetto. Ribadisco: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Io grandi soluzioni non ne ho, lezioncine da dare neanche, e sono ben consapevole di essere parte del problema. Però se almeno ci riflettessimo un po’ più spesso, un po’ tutti, sarebbe meglio. “Bisogna fare attenzione a non sporcare in giro con le nostre parole”, insegna Goran Tunström. Me lo ricorda spesso un mio collega. Uno che quando gli dici “hai una bella penna” ti risponde: “in effetti son stato negli Alpini”.

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