Commento

Parità salariale, sconcertante e 'borghese' nulla di fatto

Riconoscere la parità salariale alle donne? No, troppa burocrazia, secondo una maggioranza di senatori Udc, Plr e Ppd

1 marzo 2018
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“Uomo e donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore”. Questo sta scritto dal 1981 nella Costituzione federale. «Un giorno di lavoro ogni quattro anni, per onorare dopo 37 anni un diritto costituzionale alla parità salariale – è chiedere troppo?». Sì, eccessiva burocrazia: così in sostanza hanno risposto ieri mattina 25 ‘senatori’ Udc, Plr e Ppd a una frustrata Simonetta Sommaruga che rivolgeva al plenum la retorica domanda.

Il Consiglio federale voleva obbligare per legge i datori di lavoro che impiegano 50 o più dipendenti (il 2% delle imprese, il 54% degli attivi) a effettuare ogni quattro anni un’analisi sulla parità salariale. I risultati, una volta verificati da un organo indipendente, avrebbero dovuto essere comunicati ai dipendenti o agli azionisti. Nessuna sanzione, né obbligo di notifica allo Stato; tantomeno ci sarebbe stata una lista nera con i nomi dei datori di lavoro inadempienti. «Modifiche di legge omeopatiche», le ha chiamate qualcuno. Che avevano comunque il pregio di ricordare a tutti che la parità salariale non è una questione «solo delle donne» (Sommaruga), ma «fa parte delle esigenze elementari di una società moderna» (il socialista Paul Rechsteiner).

Non sappiamo se la società elvetica è moderna. La politica, questo ormai lo abbiamo capito, non lo è. La decisione della maggioranza borghese (e maschile) del Consiglio degli Stati di rinviare il progetto governativo in commissione per ‘approfondimenti’ la dice lunga sulla mentalità prevalente a Palazzo federale, e non solo qui. Non si è arrivati al punto di sentir parlare di ‘Lohnpolizei’ (polizia salariale), spauracchio che alcuni rappresentanti dell’economia hanno comunque già agitato. Però non ci siamo fatti mancare quasi nulla: dal «primo passo verso una regolamentazione statale dell’economia privata» (Thomas Hefti, Plr) al «diktat dello Stato», nella bocca di un Hannes Germann (Udc) che se l’è presa con un presunto ‘Zeitgeist’ (spirito del tempo) impregnato di una profonda «sfiducia nell’economia» e della convinzione «che tutti i problemi si debbano risolvere con una legge».

Per coloro che ieri hanno voluto rinviare il tutto alle calende greche, la persistente discriminazione salariale in questo Paese (quegli “inspiegabili” 600 franchi al mese che le donne guadagnano in meno degli uomini) si estinguerà grazie a misure volontarie, o al massimo grazie a una auto-certificazione (l’ultima trovata del Ppd Konrad Graber). Non è così. Cinque anni (2009-2014) di ‘Dialogo’ con le imprese non sono serviti a niente: su 66mila imprese, solo 28 (!) hanno fatto la loro parte, ha ricordato Sommaruga.

Concentrarsi sui salari è riduttivo, lo sappiamo. Anche un sostenitore delle fallimentari ‘misure volontarie’ (Andrea Caroni, Plr) ha fatto notare che il discorso andrebbe esteso: alla (im)possibilità di conciliare lavoro e famiglia, per esempio. Ha ragione. Ma non è un buon motivo per evitare di agire sulle retribuzioni. Il progetto del Consiglio federale era poco più di zero, “insopportabilmente moderato” (così lo ha definito tempo fa l’editorialista del ‘Tages-Anzeiger’). Ma era pur sempre meglio di un calcio negli stinchi.

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